Foto dal web
Sono molto orgogliosa di pubblicare questa intervista a Silvia Pareschi, traduttrice letteraria dall’inglese, in trasferta a San Francisco. Di lei avevo già parlato qui in occasione del nostro incontro a Milano e qui quando ci siamo viste a Torbole, anche con Rose, nel mio B&B.
Prima di incontrarla in rete, più di un anno fa, e di persona più recentemente, ignoravo quasi totalmente la figura del traduttore.Conoscevo unicamente Fernanda Pivano, che ha dato un contributo fondamentale alla conoscenza della letteratura americana in Italia.
Non che pensassi che i libri si traducessero da soli ma la mia concentrazione era calamitata unicamente dall’interesse per il libro dell’autore straniero, per la trama, il modo di scrivere, i dialoghi.Ora quasi mi vergogno all’idea di non essere stata sfiorata dal pensiero che dietro un buon testo di un autore straniero ci fosse il traduttore, un professionista che proprio grazie al suo lavoro interessante e importante contribuisce al successo di un testo e del suo autore nonchè alla sua divulgazione.
Non avremmo mai potuto leggere importanti testi di autori stranieri (ad esclusione di chi ha la fortuna di conoscere bene una o più lingue) senza il lavoro del traduttore.Silvia, nonostante svolga una professione importante e di grande rilievo culturale e sia una persona di grande cultura e dai molteplici interessi, è una persona simpatica, diretta, affabile, dal sorriso accattivante. Inoltre, il suo stile elegante e i suoi modi raffinati mi hanno veramente conquistata.Sono veramente felice di averla incontrata. E la ringrazio tantissimo per avermi dedicato il suo tempo.Silvia, quando hai deciso che avresti fatto la traduttrice letteraria?
Da ragazzina, prima di iscrivermi all’università, avevo il vago desiderio di diventare traduttrice di letteratura… russa. Dopo essermi laureata in russo, però, cambiai idea e decisi che non sapevo più cosa volevo diventare.
Che percorso di studi e formazione sono indispensabili per essere un buon traduttore?
Se volete un percorso lineare e sistematico, non fate come me! Dopo la laurea in russo provai diversi lavori, poi mi iscrissi a una scuola di scrittura dove venni “scoperta” da una importante traduttrice. Oggi ci sono molti corsi, universitari e di perfezionamento, a cui ci si può iscrivere. Poi comincia la gavetta, e lì ci vuole senz’altro anche un po’ di fortuna.
Perchè, secondo te, il traduttore, pur essendo una figura importante, è trascurato e resta sempre nell’ombra?
Ci sono tanti motivi. Da una parte esiste la convinzione che basti conoscere una lingua per diventare traduttori; dall’altra manca l’attenzione – da parte degli editori prima di tutto (non sempre ma spesso), e poi dei recensori – per l’importanza di una buona traduzione. E poi la buona traduzione, per definizione, non si nota. Tutti la notano solo quando è brutta!
Puoi raccontarci come avviene il tuo lavoro, operativamente, a partire dal primo contatto?
In genere è la casa editrice che mi propone una traduzione. Quando comincio a tradurre un libro, di solito faccio una prima stesura il più possibile accurata, seguita da una rilettura molto attenta e minuziosa, fatta confrontando il testo tradotto con l’originale, parola per parola. Al primo giro la concentrazione è tutta sulla singola parola; con la seconda stesura comincio a lavorare sul testo per creare una prosa fluida e aderente allo stile dell’autore. La terza fase è una rilettura più veloce, quasi da lettrice “comune”, nella quale cerco di “sentire” il testo come se fosse stato scritto direttamente in italiano. A questo punto il libro passa all’editor/revisore, che dopo un primo giro di correzioni me lo rimanda da controllare. Infine, dopo il confronto e le discussioni con l’editor, il libro viene messo in bozze, e in questa fase effettuo un’altra rilettura per dare la mia approvazione finale.
Hai dei colloqui preliminari con l’autore? O hai solo dei contatti con la casa editrice?
I colloqui con l’autore avvengono di solito in corso di traduzione, dopo una prima stesura in cui individuo i dubbi da sciogliere e i chiarimenti da chiedere. Di solito sono dialoghi molto interessanti e proficui – per me, senz’altro, ma a volte anche l’autore scopre qualcosa di nuovo, un punto di vista diverso sul proprio testo. La cosa più emozionante è quando riesco a incontrare gli autori di persona, dopo essere entrata a fondo nelle loro opere e aver dato loro una voce in italiano.
Molte parole sono pressochè intraducibili o, quanto meno, la traduzione ne penalizza il significato. In quel caso come ti comporti?
Le soluzioni variano a seconda dei casi. Si possono usare perifrasi, “note interne” per spiegare il significato di una certa espressione, oppure, là dove ci sono giochi di parole, ricreare qualcosa di equivalente in italiano. L’importante è mantenere l’intenzione, l’effetto che l’autore voleva creare in quel punto della narrazione.
Silvia, hai avuto dei maestri? Se non li hai avuti, a chi ti sei ispirata?
Sono stata molto fortunata, perché ho avuto non una, ma ben due maestre eccezionali. La prima è stata Anna Nadotti, grande traduttrice di A. S. Byatt, Amitav Ghosh e molti altri, che mi ha “scoperta” durante un seminario e mi ha segnalata a quella che sarebbe diventata la mia seconda maestra, Marisa Caramella, grande traduttrice ed editor dalla quale ho imparato molto di quello che so.
Quali autori hai tradotto?
Ne ho tradotti tanti. Jonathan Franzen, Junot Díaz, Denis Johnson, Julie Otsuka, Nathan Englander,Nancy Mitford, E. L. Doctorow, Amy Hempel, Annie Proulx, Don DeLillo, Cormac McCarthy e molti altri, fra i quali anche mio marito, Jonathon Keats, di cui ho tradotto Il libro dell’ignoto per la casa editrice Giuntina.
Vivi un po’ in America e un po’ in Italia per esigenze legate alla tua professione o solo per motivi personali?
Un po’ per entrambe le cose. Diciamo che i motivi personali si sono incastrati perfettamente con le esigenze professionali.
Dedico a Silvia uno strepitoso brano di Dave Brubeck “Take five“.