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Uova? No grazie!! Però…………

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La congiuntura sfavorevole fa aguzzare l’ingegno e la creatività. E’ il caso di dirlo.
Mi serviva un supporto per appoggiare il portatile sulle gambe evitando di surriscaldarle.
Giorni fa ho notato, passandogli davanti, che il ristoratore vicino a casa mia buttava dei vassoi portauova.
Vedendoli ho pensato che avrebbero fatto al mio caso.
Gliene ho chiesto uno e l’ho portato a casa.
L’ho dipinto con acrilico nero e abbellito con un vecchio e inutilizzato nastro di pizzo e con dei lustrini.
Un cartone, foderato con un pezzo di vecchi e inutilizzati jeans ha fatto da base.
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E ora un grande del Jazz, Billy Cobham in Take Seven

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Intervista a due creativi


Giusy e Stefano, li ho conosciuti un annetto fa sul web. Ero a New York per frequentare il corso di oreficeria allo Studio Jewelers  (QUI come passavo le giornate in laboratorio…) e, per approfondire certe tecniche, alla sera cercavo su google i siti che potevano darmi le risposte che cercavo.

Anche perchè – è quasi un paradosso – imparavo la terminologia tecnica in inglese ignorando completamente quella italiana. E mi interessava conoscere i termini tecnici e la strumentazione nella mia lingua anche per poter rifornirmi del materiale necessario esprimendo le opportune richieste.

Grazie alle spiegazioni trovate sul sito di Giusy e Stefano, sono riuscita a trovare molte indicazioni. Ma alcune cose volevo ulteriormente approfondirle e così, con un po’ di faccia tosta (che si acquista vivendo sola in una megalopoli e a 6000 km da casa) ho inviato loro un email.

Non solo ho avuto subito la risposta ma è intercorsa, successivamente,  una fitta corrispondenza virtuale che, man mano, travalicava l’argomento meramente tecnico entrando in aree più personali e private che non potevano non finire nella promessa di un incontro, al mio rientro in Italia.

Durante la corrispondenza abbiamo scoperto molti punti di interesse, a partire dalla musica (sono anche musicisti), dall’amore per gli animali, per l’arte, per le moto, per i viaggi. E Giusy non si è mai risparmiata gli incoraggiamenti quando vacillavo e vedevo tutto difficile e oscuro…

L’incontro è avvenuto a Levico Terme, dove hanno l’attività di orafi da 20 anni (provenienti dal Friùli) e dove ho potuto vedere le meraviglie che crea Stefano e la nuova attività di Giusy legata alla trasformazione delle immagini fotografiche.

Alla sera abbiamo concluso la nostra giornata in un ristorante veg poco distante da Levico: Veg Point – Via Alberè 22 – Tenna (TN) – Tel 0461/700149.  E posso dire che anche questo incontro è stato estremamente ricco e positivo, concludendosi con questa intervista.

Stefano, da quando hai iniziato a interessarti di arte orafa?

Dopo le superiori (geometra) e un lavoro come aiutante elettricista, ho iniziato a frequentare un laboratorio orafo nel mio paese d’origine: Codroipo, in provincia di Udine. Qui ho assaporato il piacere del lavoro artigianale, e scoperto una vocazione per quest’arte. E’ strano perché non avrei mai pensato di lavorare nell’ambiente orafo: da un lato non avevo interessi di questo tipo, dall’altro avendo alcuni cugini a Valenza Po (in provincia di Alessandria, tra i più grandi poli orafi d’Italia  – l’altro è Vicenza) che lavorano come operai orafi in vari laboratori o ditte, avevo già catalogato quello come un lavoro settoriale, di pura manovalanza, non adatto a me. L’artigianato è tutta un’altra cosa: segui una creazione dall’inizio alla fine, godendo di tutti i passaggi e vedendola crescere tra le tue mani: è decisamente più soddisfacente e completo, come lavoro!

Chi è stato il tuo maestro (o la tua scuola)?

Non ho fatto scuole d’arte ne’corsi specifici di oreficeria; dall’orafo che ho frequentato al mio paese ho “rubato” molto con gli occhi, e quando mi ha fatto provare l’attività presso un suo collega a Udine, le basi venivano già da sole! Poi lì sono rimasto “a bottega” per parecchi anni e ho imparato l’arte orafa in tutte le sue sfaccettature. La scuola è sicuramente importante, ma non c’è niente di meglio che imparare direttamente sul campo. Tanto la creatività e l’estetica o le hai o non le impari con una scuola, mentre tutti i problemi tecnici che affronti in un laboratorio di creazioni e riparazioni ti preparano alla vita reale e alla possibilità di avviare con competenza un’attività in proprio.

Che cosa o chi, dal Friùli, vi ha spinto in Trentino?

Stefano: Il caso, come spesso capita. Siamo venuti  in ferie in zona per un paio di anni e il luogo ci è piaciuto: entrambi siamo appassionati di montagna, tanto da dedicarci poi a trekking e ferrate. Giusy si stava laureando senza avere prospettive di lavoro se non all’estero, mentre io, dopo tanti anni di lavoro sotto padrone, sentivo che potevo espormi in qualcosa di più personale.

Abbiamo scelto un posto non troppo dissimile dalla nostra pianura ma con tante montagne interessanti attorno, ci siamo lanciati e… eccoci qua! Nel 1992 abbiamo aperto il nostro Laboraotrio Orafo NIGI (www.nigilab.com). Giusy mi aiuta molto nella gestione dell’attività permettendomi di dedicarmi esclusivamente al lavoro “da banchetto” ma nel contempo si esprime anche lei realizzando alcuni modelli personali.

Cos’è che caratterizza le creazioni NIGI?

In Friuli ci sono parecchi laboratori orafi piccoli, per lo più a conduzione familiare, dove si realizzano gioielli secondo un’antica tradizione longobarda, ed è questa che ho sviluppato. I gioielli vengono realizzati con il metodo della “fusione a cera persa” (ossia si lavora prima la cera e poi la si trasforma in metallo) e vengono scolpite delle parti che successivamente non saranno lucidate: questo gioco di oro-lucido e oro-grezzo è tipico delle popolazioni antiche e in Trentino non si vedevano esempi di questo tipo. Abbiamo proposto questa nuova lavorazione


che ha avuto successo sia tra i clienti locali sia tra i turisti,  stranieri e italiani. Alcuni conoscono questa lavorazione con il termine di “oro etrusco”, anche se non sarebbe del tutto corretto in quanto i gioielli antichi di quella zona venivano realizzati con la tecnica della granulazione.

Comunque lavoro anche direttamente il metallo e con la fusione a cera persa realizzo anche gioielleria classica, tutta lucida.
Altre creazioni di Stefano:

So che partecipate anche a mostre, eventi ecc. Cosa ci racconti in proposito?

L’Associazione Orafi in Tentino è ben organizzata creando così eventi e mostre di ogni tipo. Periodicamente realizziamo quindi dei gioielli in tema per le varie mostre (www.nigilab.com/IN ), ma siamo stati inseriti anche nell’Annuario dell’Artigianato Artistico Italiano, nel 1997, e siamo stati segnalati al Premio ArtigiAno 2010 per “la capacità di tradurre in un gioiello la spiritualità di un gesto”: l’opera per il concorso era “Il Segno della Croce”, una croce realizzata con due fili contigui che seguono quel gesto sacro,
appunto: ora questo è il nostro prodotto di punta, quello che più ci caratterizza in zona.
Di tanto in tanto ci occupiamo anche di attività didattica ospitando scolaresche nel nostro laboratorio o eseguendo dimostrazioni pubbliche. Ho sempre amato divulgare il mestiere, spiegando ai clienti i vari passaggi delle lavorazioni e sviluppando un negozio con laboratorio a vista.

Adesso mi sto attivando per diventare Maestro Orafo, ma è un processo molto lungo, distribuito in più anni.

Giusy, tu sei laureata a Ca’Foscari in Lingue e Letterature Orientali e hai viaggiato molto in India. Che cosa ti resta di quell’esperienza sia di studio sia di vita?

Sono stati anni molto ricchi, a livello culturale. Ho sempre amato tutto ciò che è “lontano” e diverso, mi piace confrontarmi con culture alternative alla mia, e questo percorso didattico ha soddisfatto queste mie esigenze.

Studiando la filosofia e le religioni orientali ho imparato tante cose: confrontandole con la nostra cultura ho potuto notare come esistano delle Verità Universali, comuni a tutte le civiltà, e questo è ciò che più mi ha colpito e che si è “inciso” dentro di me influenzando tutto ciò che faccio ed esprimo nella mia vita. Non sono i numeri, i nomi e le date che ti arricchiscono come persona, ma i concetti sottintesi a quelli.

Che lingue hai imparato?

L’Hindi, la lingua principale dell’India (in quanto parlata nella zona della capitale) tra le 14 ufficiali nel subcontinente (alcune perfino con un alfabeto diverso!); un po’ di sanscrito, ossia la sua controparte antica, come il greco e il latino per noi europei; infine l’inglese, che ho specializzato in una facoltà parallela: sempre a Ca’ Foscari di Venezia ma alla facoltà di Lingue e Letterature Occidentali, per poter esercitare l’insegnamento, eventualmente. Ah, dimenticavo, il primo anno di studi ero iscritta ad Arabo, per cui ho iniziato a studiare anche l’arabo classico, il tunisino e il libanese, ma ora non li ricordo più molto.

Siete anche musicisti e il vostro gruppo si chiama Talking Sound.  Come è nata la vostra passione per la musica?

Giusy: la musica è stata la mia prima vera passione, ma la mia famiglia non l’aveva realmente capito per cui ho potuto dedicarmi seriamente allo strumento della chitarra solo in età avanzata (dopo i trenta) e una volta trasferitami in Trentino.
Ho preso lezioni dapprima da un vicino di casa, poi ho seguito i corsi di una scuola seria per qualche anno e infine – dopo alcuni anni durante i quali mi sono dedicata alle composizioni di canzoni proprie, suonato in una band al femminile e fondato un “duo elettrico” con mio marito, chiamato appunto Talking Sound –  ho preso lezioni private per un paio di anni sulla chitarra solistica rock e l’improvvisazione jazz. www.youtube.com/talkingsound1  www.myspace.com/talkingsound.
Con il duo ho dovuto anche cantare, per cui ho iniziato a prendere anche lezioni di canto, ma qui ho più lacune…

Stefano: io invece non avrei mai pensato di dedicarmi alla musica –nemmeno qui… mi sa che la mia vita è stata tutta una sorpresa! Ma vedendo quanto impegno ci metteva Giusy, ho detto, perché no? Qualcosa devo fare anch’io nel frattempo! Così ho studiato la batteria, dapprima nella scuola della banda locale, poi prendendo lezioni da batteristi molto conosciuti in zona. Quando il gruppo di Giusy si è sciolto abbiamo iniziato a provare in casa, dove abbiamo una sala prove, e visto che le cose funzionavano bene anche in due, abbiamo fondato questo duo elettrico e iniziato a suonare in giro le canzoni di Giusy, che è molto creativa, in questo senso.

Insomma: Giusy mi segue nell’attività lavorativa e io l’ho seguita nell’hobby della musica!

Che cos’è il “duo elettrico”?

Giusy: per duo, in musica, si intende ovviamente due strumentisti che suonano assieme. Quando c’è di mezzo almeno uno strumento elettrico, si può parlare di duo elettrico. Noi suoniamo la chitarra elettrica e la batteria, ma esistono duo simili in formazione basso-batteria. Siccome questa formazione non è effettivamente molto conosciuta (eccetto il caso dei White Stripes, probabilmente), e che a molti pare perfino una band “monca” in quanto mancante del basso o della chitarra, ho creato una pagina dapprima su Myspace, infine su Facebook dedicata all’argomento e l’ho chiamata Electric Duo Project. Su myspace (www.myspace.com/electricduoproject) ho radunato tutte le band che trovavo, a livello mondiale (mica tante eh, poco più di un centinaio!); le ho personalmente contattate, mi sono fatta inviare una biografia, foto videi e brani musicali che avevo raccolto e pubblicato in vari lettori e album, poi però c’è stato un cambiamento grafico di grande impatto nel social network e ho perso molto materiale. Non ho avuto più tempo per dedicarmi a quella pagina, che è quindi un po’ abbandonata e incompleta, ora.

Su FB ho invece realizzato una pagina in tema radunando le band italiane, e siamo ora tutti in contatto, scambiandoci date di concerti ecc. http://www.facebook.com/?ref=home#!/group.php?gid=173645233591

Infine per anni ho tentato di realizzare un festival in tema, contattando dei produttori  ma quand’era a buon punto è sfumato tutto per carenza di sponsor: eh questa crisi, non c’è settore che non colpisca!

Giusy, ora hai iniziato una tua attività creativa legata all’elaborazione delle immagini fotografiche. E l’hai chiamata Joy Arte Grafica. Innanzitutto, lo sai che ho chiamato  la mia cagnolina Joy  proprio ispirandomi al  nome che hai dato alla tua attività? Comunque, tornando alla tua arte, da cosa nasce questo interesse per la trasformazione delle immagini su tela?

Sì sì, mi ricordo, si chiamava Gaia ma l’entusiasmo per la mia nuova attività ti ha travolto così tanto che abbiamo condiviso questo splendido nome con le nostre passioni… Sai, certe cose nascono quasi per gioco: durante le lunghe serate invernali mi capitava di rimaneggiare un po’ di foto,  e così ho imparato ad usare con destrezza certi programmi fotografici. Esagerando con le elaborazioni ho visto che nascevano cose nuove, insolite ed interessanti, perfino lontane dalle immagini originarie, ed è stata proprio la sorpresa di veder nascere questi nuovi soggetti e le emozioni di gioia che mi comunicavano, che ho scelto questo nome: JOY.
Ora amo fotografare cose stranissime per poi vedere cosa se ne può ricavare.
Dapprincipio ho elaborato i soggetti astratti e i Daemon (nel senso greco del termine, ossia apparizioni di altri mondi che fungono da messaggeri tra gli dei e gli uomini), li ho stampati su pannelli forex (materiale leggero ma resistente, con la stampa direttamente su pannello, non carta fotografica incollata che poi col tempo cede) e decorato la nostra abitazione. L’interesse degli ospiti era sempre di sorpresa e di gioia, e alcuni di loro me ne hanno ordinato qualcuno. Da qui richieste di soggetti più vari e “comprensibili” come fiori, animali ecc. e quindi mi sono lanciata “sul mercato” elaborando soggetti vari.
Ecco alcune creazioni di Giusy

Se qualcuno volesse vedere le tue opere, dove le trova? E come fa ad acquistarle?

Siccome ho iniziato da poco l’attività, per il momento ho realizzato una semplice pagina facebook (www.facebook.com/joyartegrafica); cliccando su “foto” appaiono degli album suddivisi nei vari soggetti del catalogo. Se interessati basta inviare un messaggio o scrivere a joyartegrafica@teletu.it

Intanto ti ringraziamo per l’interesse, la tua disponibilità nei nostri confronti e il bel lavoro che fai con questo blog. E’ stato un piacere essere intervistati da te!

Ringrazio Giusy e Stefano per il tempo che mi hanno dedicato e per la passione che mi hanno trasmesso, ascoltandoli.

Dedico a loro questo bel blues: il grande BB King in Blues Boys Tune


Detersivo per lavatrice

Mi è presa la fissa dell’autoproduzione e, dopo il cibo, mi sto cimentando nel sapone da bucato. Ho seguito, passo passo, le indicazioni del sito “La regina del sapone” e, miracolo, ce l’ho fatta!
Ho diminuito leggermente le dosi non avendo un recipiente capace ma ho mantenuto, fedelmente, le proporzioni.
Ho già lavato sia i capi bianchi (comprese le camicie) sia quelli colorati e il risultato è stato sorprendente.
Inoltre, questo detersivo non ha profumazione e, per me, è un impagabile vantaggio.
Come ammorbidente ho usato un paio di cucchiai di aceto bianco (quello meno caro, acquistato al supermercato).

Ingredienti:
400 gammi di sapone di Marsiglia 100% vegetale
3,600 litri acqua
40 grammi bicarbonato

Procedimento:
Tagliare il panetto di sapone a fette di circa 1 cm di spessore

e inserirlo in una pentola da 5 litri di capacità. Aggiungere il bicarbonato

e poi l’acqua e portare a ebollizione.
Bollire dolcemente a pentola scoperta fino a quando il sapone non si sarà completamente sciolto.

Mescolare ogni tanto. Se restano dei piccoli pezzetti di sapone non sciolto non ha importanza.
Poi spegnere, coprire e lasciare così fino all’indomani.
L’indomani, il sapone si presenterà solido.
Versarlo in un recipiente che sarà quello definitivo (un secchiello con coperchio è l’ideale).
Immergere  un frullatore a immersione e frullare il sapone fino a ridurlo in crema.


La dose  per un lavaggio è circa 200 ml.

Ascoltando Pat Metheny in “Always and forever”


La seconda vita delle cose

Ascoltando Fats Waller in Ain’t Misbehavin penso alle trasformazioni, al cambiamento delle cose, a nuove opportunità.

DAI JEANS

Amo i jeans smodatamente, li considero la mia seconda pelle ma, nonostante siano pressoché indistruttibili, alcuni  sono costretta a eliminarli perché  non più indossabili. Ma, da riciclatrice  creativa, li trasformo in oggetti di uso quotidiano.
Ecco le trasformazioni dei jeans


Un paio di ciabatte  lavabili

La loro custodia (per metterle in valigia)…….


…personalizzata


Tovagliette americane

Un sottotazza

Uno zainetto

Una borsa

Una sacca porta tutto (io la tengo nella cabina armadio e ci metto le calze)

Un porta incenso

Un porta fiammiferi

Un porta telecomandi

Un porta accessori della macchina per cucire

Un porta tutto personalizzato (Lidia è la mia mamma)

DALLE TOVAGLIETTE AMERICANE

Quando le tovagliette americane si usurano o si macchiano, do loro un’altra vita


Un porta pane

DALLE CASSETTE DEL VINO
Sono oggetti che ritengo un peccato buttare ma trovo divertente decontestualizzare  reinventandoli


Con una tovaglietta di paglia…

…..le maniglie di ottone…

…diventa un vassoio porta condimenti


Una cassetta più piccola diventa un pratico contenitore di spezie

DA UN SACCHETTO DI CARTA, DA NEW YORK
Ho usato il sacchetto interno della double bag


Una tovaglietta americana

Carta per appunti

Per coprire una scatola da scarpe ….

…per conservare le cipolle

Mi piace inventare, creare, reinventare, riciclare, trasformare.  Un eterno ritorno…


Intervista a un artista


Mario Cesàri
è un artista anche se lui non apprezza questa definizione preferendo considerarsi un artigiano. Non che artigiano sia una connotazione inferiore ma per me Mario è un artista con tutte le caratteristiche che questa condizione implica. E’ eclettico, talentuoso, creativo, estremamente sensibile, lievemente ombroso, poco incline alle regole, poco loquace ma attento ascoltatore e disponibile alla relazione, soavemente ingenuo ma non dabbene, acuto osservatore, di vasta cultura, dai molteplici interessi.

Ha scritto articoli e tradotto dall’inglese “Metalwork and enamelling” di Herbert Maryon per la Hoepli, col titolo “La lavorazione dei metalli”.
Mario crea dei capolavori con oggetti umili o che tutti butterebbero via. Un chiodo, un cucchiaio, un’antenna.

Ho conosciuto Mario a Pennabilli,  nella sua casa che è anche il suo studio dove vive con Bigolo, il suo delizioso cagnolino con cui ha un rapporto quasi umano.

Sono stata da lui due volte, per giornate intere a imparare qualche trucco del mio hobby, l’arte orafa,  che elargisce e trasmette con generosa disponibilità, senza nascondere segreti come fa chi non è capace di condividere la propria arte temendo di esserne depredato.
Il talento, infatti, non si può nè rubare nè copiare.


Mario ed io nella sua casa (il collier che indosso è “la calla” in ottone, opera di Mario)

Faccio la modella con una collana in ottone, opera di Mario


Insieme di gioielli

Ho chiesto a Mario quest’intervista e lui, disponibile come sempre, me l’ha concessa.

Mario, da Venezia, cosa o chi ti ha spinto a Pennabilli?
Il caso, naturalmente. All’inizio degli anni ’80 un venditore di auto usate, a Bellaria dove viveva mia madre, le ha proposto di comperare una casa da restaurare.  Mia madre ha chiesto a me e mio fratello di imbarcarci per guadagnare i soldi del restauro. Così ho lasciato la casa di Venezia dove ero in arretrato con l’affitto, ho fatto un imbarco di 5/6 mesi e abbiamo restaurato la casa, da allora sono un pennese.

Che cosa ti ha spinto alla lavorazione del metallo?
Il fatto che sia io che mio fratello siamo radiotelegrafisti di bordo. Beh, una volta mio fratello sbarcando da una nave che andava al disarmo, ha portato a casa l’antenna radio che è fatta di fili di rame da 1mm circa torti assieme, lunga una decina di metri e pesante. Poi, dopo una raccolta di pigne da pinoli per fare un dolce, gli è venuta l’idea di usare il filo di rame per fare un girocollo cui appendere una squama di pigna. Si è messo in produzione, ha teso fili su cui appendere le collane, a decine, per asciugarle dalla vernice protettiva. La sera adava in Piazza San Marco e le vendeva ai turisti. Bei tempi, eravamo una novità, giovani che si davano da fare, e si guadagnava bene.

Da quando?
Ormai da quasi quarant’anni, quando abbiamo cominciato col metallo avevo già fatto quattro imbarchi, anche dopo ho navigato per anni, alternavo periodi di artigianato a terra con periodi di imbarco. Il fatto è che da telegrafista si guadagnava molto ma molto di più che con l’artigianato. Ma da quando esistono le comunicazioni satellitari, il GPS ecc. le navi non hanno più l’obbligo di imbarcare un radiotelegrafista per eventuali SOS. Così ho fatto l’ultimo imbarco una ventina d’anni fa.

Hai avuto un maestro, hai frequentato una scuola?
Ho seguito un corso di incisione e calcografia, ho imparato a forgiare e cesellare da un argentiere a Londra, a fondere in osso di seppia e a usare le pietre da un orafo tradizionale veneziano, a fondere in cera negli USA e in sabbia in Nepal. Ma sono in gran parte autodidatta e devo molto ad alcuni libri, il più utile è stato il libro di Herbert Maryon

Che rapporto hai con le tue creazioni? 
I primi tempi ero molto contento di vendere i miei pezzi anche quelli belli, da un po’ tendo a volerli tenere. A volte tengo per giorni un pezzo ben fatto sul tavolo  per guardarmelo.

Lo consideri un lavoro?
Certo che è un lavoro, vivo del mio mestiere.

Certo che non è un lavoro: nessuno mi dà uno stipendio, non sono impiegato o dipendente.

C’è qualcosa che ti ispira nel creare un gioiello, un oggetto?
A volte una tecnica, a volte un oggetto, un insetto ecc. Più che l’ispirazione, io pratico il riconoscimento. Faccio qualcosa e poi vedo se mi piace o no.

In quale tecnica orafa ti riconosci?
Ci sono delle tecniche che mi piacciono: fusione in osso di seppia, cesello e negli ultimi anni forgiatura. Mi piace limare e odio lucidare.

Come organizzi la tua giornata di lavoro?
Va molto a periodi, in questi mesi lavoro un po’ al banco e molto al computer, tengo corsi, vado a mercati. Quando lavoro al banco mi riempio in poco tempo di pinze, lime, bulini, compasso, punte, fresette ecc. e sembrerebbe una gran confusione. In effetti lo é.

Che tipo di musica ascolti?
Brassens, fado, vecchi blues e tango, standards dai  ’30 ai ’60, classica; ascolto (solo) radio3

Hai degli hobby?
Alcuni si integrano col lavoro, come la macrofotografia o spataccare al computer,  poi ho un po’ di interessi: cinema, libri, economia, ecologia ecc.

Mario, come dicevo, è di poche parole ma, non è una contraddizione, starei ad ascoltarlo per ore mentre racconta la sua vita, quello che fa e come lo fa.

Altri gioielli di Mario:

fibbia


orecchini


pendente


orecchini

gemelli


fibbia

Ascoltando un pezzo di Bob Dylan, suggeritomi da Mario: Joan Baez in Love is just a four-letter word. Gliela dedico.


Insuccessi

Mi consolo ascoltando l’energetica Tina Turner in “Simply the best” ma ho lo stato d’animo più incline verso il Requiem di Mozart (musica bellissima e solenne, tra l’altro).
Sono avvilita, proprio tanto. Sono due giorni che combatto con il prong setting (qui per la traduzione tecnica chiedo aiuto a Stefano e Giusy). I prongs sono quei “dentini” che vanno preparati in modo da ingabbiare una pietra.

I prongs si preparano con una fresa a forma di trottola (con un po’ di fantasia..) che si chiama hart bur (in italiano?) in modo che la pietra si incastri bene tra due o più “dentini” e, dopo averla premuta con il prong pusher (che non è uno spacciatore….), resti fissata per l’eternità.
Le pietre che sto usando sono zirconi, hanno il diametro di mm 1.75 – mm 2 e, in un anello, possono essercene anche una decina.
Niente da fare nonostante l’accurata spiegazione a voce, alla lavagna, la dimostrazione dell’insegnane, del direttore. Niente. E lacrime.

I miei errori:

– mi si spezza uno dei due “dentini” mentre lo spingo contro la pietra (significa che ho spinto troppo l’hart bur assottigliando troppo la parete del prong) e la pietra fa un salto.
– gli spazi creati sono ad altezza diversa  (la pietra non sta in piano ed è  impossibile da intrappolare. Senza contare l’effetto antiestetico).

Capita che non faccia nessun errore: spazi ad altezza identica, della misura adeguata ad accogliere la pietra. Ma la pietra non sta ferma, saltella, zompa.

L’insegnante Janice mi ha detto che la pietra non ha cervello e che dipende da me, non io da lei. Sagge parole. Ma il risultato è stato deludente.

Non mi dilungo ma il succo è che sono demoralizzata. E pure il tempo non mi aiuta: piove e fa freddo.

Mi sto appassionando a questa arte, occupa gran parte dei miei pensieri e già sto pensando di continuare, di dedicare tutto il mio tempo,   ma sono delusa di me stessa.

Ora capisco cosa c’è dietro un oggetto prezioso, fatto a mano o con pochi strumenti e che può sembrare caro nel prezzo: passione, fatica, ore ed ore di lavoro, stanchezza fisica, delusione, precisione, serietà, esperienza, arte, creatività, unicità.


Giornata newyorkese (feriale)


Come inizia la mia giornata newyorkese feriale? Innanzitutto inizia con un brano di jazz dal Mac.
Ascoltando il sax di Branford Marsalis trio in “Cherokee” mi preparo per raggiungere l’indirizzo della foto di apertura.
Tralasciando le normali attività quotidiane del dopo risveglio, che tutti compiono,  indugio sulla prima piacevole azione della giornata: la colazione.

Non è tutti i giorni uguale ma, spesso, un fresco frullato di fragole, preparato con latte di soia,  è un piacevole inizio, specie in queste giornate calde.
Ma non mi fermo qui perché  per me la colazione è un vero rito, irrinunciabile.
Mi è difficile, infatti, capire coloro che fanno colazione al bar.
Continuo con fette di pane tostato, spalmato di ricotta di soia autoprodotta e marmellata di mirtilli.
Una mug di caffè  aromatizzato  alla vaniglia o alla nocciola (preparato con la moka)  e allungato con un po’ d’acqua bollente è il tocco finale.
Successivamente mi collego a skype per salutare Seb, mio marito o Barbara, mia figlia.  Le 6 ore di fuso non ci consentono grandi possibilità di scelta di orari. Sto con loro una mezz’oretta e parlare con loro mi fa iniziare  bene  la giornata.
Preparo lo zainetto con le cose necessarie per la giornata lunga fuori casa, senza dimenticare la schiscetta (per i non milanesi: è il pasto preparato a casa che si porta, in un contenitore, al lavoro).
Qui mi sbizzarrisco:
Riso con tempeh e fungo portabella grigliato e un involtino di cavolo verde (collard) con riso. Mi fa ridere chiamarlo portabella ma sulla confezione c’è proprio scritto così:
Comunque, al di là del nome, è buonissimo.
Mi piace talmente tanto che a volte la mia schiscetta è questa:
Un veg-hamburger con lattuga, cipolla, pomodoro  e ketchup  contenuto in due funghi invece che nel classico bun.
Ma anche il calzone (autoprodotto) fa parte dei menu da schiscetta:
Mi sono inventata una variante, nell’impasto, aggiungendo un bel cucchiaio di concentrato di pomodoro e un cucchiaino di origano. La farcitura: ricotta alle erbe (autoprodotta) e pomodoro.
Pronto lo zainetto, esco di casa, un appartamento che si trova all’East Village.
Questo è l’atrio
E questo il portone
Mi dirigo verso la fermata dell’autobus e,da quando salgo, osservo.
New York è  veramente una città per curiosi come me. Anche l’autobus è un buon punto di osservazione.
Questo è un passeggero speciale, pure un po’ vanitoso. Si è messo in posa.
Nel tragitto, ancorchè brevissimo, da casa alla fermata, continuo a osservare e può capitare che incontri anche

cani in versione micro
o in versione macro.
Durante il tragitto, da casa al centro, impiego il doppio del tempo necessario perchè mi fermo a fotografare, osservare, annotare. In continuazione.
Qualche giorno fa ho incontrato questo ragazzo che fissava l’interno di un cartone.
Incuriosita, mi sono fermata a chiedergli di che si trattasse.
La risposta è stata questa.
Mi ha raccontato di essere canadese, in partenza di lì a poco per il suo paese, di aver trovato questo gattino abbandonato, di averlo raccolto, nutrito e di volersene occupare portandolo in Canada in auto (forse in aereo avrebbe qualche problema).  Gli ho raccomandato di non abbandonarlo mai.
E’ stato un piacevole  incontro che non dimenticherò.

Mi capita anche di imbattermi in un set televisivo.
O di vedere, sui trampoli, una ragazza che si riposa.
O una ragazza che, passando davanti a un musicista, si mette a ballare.
Ma il tempo corre veloce e io devo andare al mio corso di gioielli a cui tengo tantissimo.
Un ritardo di 10 minuti costa un quarto di  giornata di assenza. Durante il corso si possono fare al massimo tre giorni di assenza.  Questo è il regolamento. E questa  è l’America che mi piace.
Quindi mi affretto per arrivare puntuale.

Arrivo alla sede della scuola e saluto Charles, il ragazzo addetto alla security.
Prendo l’ascensore e, controllando sempre l’orologio,

arrivo all’ingresso del centro che si trova al terzo piano di un edificio della Midtown, sulla 31esima.
Entro in aula, ancora vuota….
….che di lì a poco si riempie

Il mio banco –  1 Il mio banco – 2
Si comincia a lavorare – La fusione
La zona saldatura
Compagna di corso alla saldatura
Stampo di un gioiello
Alle 13 è l’ora della pausa. Con la mia lunch box  esco e scelgo un’area tranquilla. Può essere questo giardinetto, di fronte alla facoltà di medicina della NYU, sulla 28esima
oppure  quest’area attrezzata e libera di fronte a Macy’s, sulla 34esima.
Alle 14  rientro in aula, puntuale…
….per una spiegazione alla lavagna o per continuare il progetto in corso.
Alle 17  “suona la campanella” ma mi fermo sempre 30-40 minuti in più, visto che è concesso, per portarmi un po’ avanti. Trattandosi di lavori, talvolta difficili, da eseguire con pazienza, a volte mi capita di sbagliare.
Una saldatura fatta male, per esempio, può rovinare il lavoro di un’intera  giornata. E  allora devo rifare tutto. E la quantità dei progetti  la  devo rispettare se voglio la certificazione finale.
Senza tralasciare la qualità. Qui le raccomandazioni non esistono.  E la mia certificazione  sarà per merito.
Tornando a casa me la prendo un po’ più comoda, non avendo orari da rispettare, nemmeno quelli dei negozi che qui sono aperti fino a tardi 7 giorni su 7, a volte 24 ore. Anche questa è l’America che mi piace.
Vado a fare la spesa da Whole Food in Union square che è sulla strada di casa.
Compero prodotti sfusi
ma anche confezionati come questi
o questi.
Riprendo l’autobus per tornare a casa
con le borse della spesa.
Vedo una Ducati e, anche se non è come la mia, è sempre arte in movimento e la fotografo.
Passo davanti al portone dove c’è sempre questo bel gattino.
Mi imbatto nei pompieri in azione
In una signorina sui trampoli. Come farà a camminare?
In un carrettino di bibite e pretzel.
Arrivata a casa controllo la cassetta della posta. Il metodo di organizzazione delle cassette  e di recapito non è come da noi dove c’è una feritoia nella quale il portalettere inserisce la corrispondenza.
Qui non ci sono feritoie (come si vede dalla foto in alto dell’atrio).
Le cassette sono chiuse e, all’esterno, non c’è il nome ma il numero dell’appartamento. Il nome è all’interno della cassetta. Strano, vero?
Il postino apre la cassetta (evidentemente con un pass, altrimenti dovrebbe girare con una valigia di chiavi) e inserisce  la posta.
Se il mittente non scrive il numero dell’appartamento, il postino non sa dove inserire la posta e, di conseguenza, è costretto ad appoggiarla sopra le cassette. Non tanto a malincuore, credo.
Infatti, può anche capitare che, pur essendoci l’indirizzo completo, il postino lasci la posta  appoggiata sulle cassette, per negligenza, per incuria.
E’ capitato a me con una lettera importante della banca che conteneva il mio bancomat.
Salita in casa appoggio la spesa sul tavolo per organizzare lo smistamento.
Poi, sfinita, mi rilasso sul divano, per una mezz’ora, ozio puro, sguardo al  soffitto, pensieri nomadi, più che mai.
Dopo cena, talvolta, vado in un piccolo bar, vicino a casa, che ha la wifi  (e di cui vi parlerò in altro post)

e mi bevo un caffè freddo alla nocciola con latte di soia, a volte accompagnato da una fetta di torta al cioccolato, vegan. E resto finchè il locale non chiude, alle 23. E’ a 100 metri da casa e non ho paura a tornare a piedi da sola. Mi è capitato di collegarmi , a ore assurde (italiane) con Flavia via skype  in video e di farle vedere gli avventori del locale, tra cui un poliziotto che l’ha salutata oppure con Alberto e chattare e ridere come matti.
Per lui, da casa, nessun problema ma per me, in un bar, il timore che mi venissero a prendere a sirene spiegate, vedendomi ridere  sonoramente guardando uno schermo,  è sempre stato in agguato.
Naturalmente scherzo, perché nessuno ti giudica e ci si sente liberi di agire come si desidera.
Arrivata a casa mi preparo per andare a dormire ma, prima di addormentarmi, leggo qualche pagina di “Se niente importa” di Jonathan Safran Foer. L’ultimo pensiero è per l’indomani che, pur  con alcuni programmi fissi,  mi riserverà sempre delle sorprese.
Questa è New York e io la amo alla follia.

2-Continua
Il numero 1 lo trovate qui


Perché sono a New York?


Già, perché sono a New York?
Ve lo racconto mentre ascolto, dal Mac, Charlie Parker in “I walk alone.
La risposta spontanea,  alla domanda, è perché  New York rappresenta gran parte di ciò che amo ed è in un  paese che vanta la più lunga democrazia del mondo.
Amo il jazz, l’arte, le cose introvabili, la cucina vegan, le stranezze, gli artisti di strada, le librerie e i negozi di musica fornitissimi, i magazzini aperti fino a tardi o 24 ore, lo shopping, i grattacieli bellissimi,   il melting pot e tante altre cose che New York non risparmia.
Questi motivi hanno rappresentato la ragione necessaria ma non sufficiente a farmi volare  fin qui.
Nonostante abbia un’occupazione di quelle definite sicure, il classico posto fisso in un ente pubblico (il sogno di molti, la mia dannazione), ho sempre provato un certo fastidio verso le regole imposte  da quel tipo di lavoro, ritenendolo un limite, non solo alla mia creatività ma anche alla mia autonomia, valori fondamentali per alimentare la motivazione e, di conseguenza, il massimo della resa.
Ma, avendo una figlia piccolissima da mantenere, ho dovuto, inevitabilmente, cercare un lavoro che, a fine mese, mi desse la garanzia di un’entrata certa.
All’epoca di cui parlo era ancora possibile avere un lavoro a tempo indeterminato.
Gli interessi che ho coltivato al di fuori del lavoro mi hanno salvata, fortunatamente, dal grigiore  della routine e da un  insidioso disorientamento.
Nonostante ciò, gli ultimi due anni sono stati talmente tormentati da rendere urgente una decisione.
Alzarmi al mattino per andare al lavoro era una tortura, la giornata lavorativa era un’inquietudine costante, il fastidio sempre in agguato.
Dovevo staccare dal lavoro ma starmene a casa non mi bastava.
Volevo qualcosa di forte, trascinante, pulsante, indimenticabile.

Avendo l’hobby  di creare gioielli artigianalmente,  tanto da organizzarmi in casa un minuscolo laboratorio, mi ero messa in testa di approfondire certe tecniche e impararne di nuove. Dove?
A New York, naturalmente!
Ottenevo  tre piccioni con la classica fava: staccavo radicalmente, imparavo o approfondivo nuove tecniche di gioielleria, miglioravo il mio inglese.
Ho cercato tra le riviste americane di gioielleria cui sono abbonata una scuola a New York.
Ho trovato quella che faceva per me.
Ho coinvolto la mia meravigliosa famiglia che mi ha appoggiata totalmente, mio marito Seb  che mi ha incoraggiata pur sapendo che sarebbe rimasto solo per molti mesi, ho chiesto ferie, aspettativa, ho chiesto il visto all’ambasciata americana, ho cercato un appartamento a Manhattan, mi sono iscritta alla scuola.
Ho descritto un anno di tempo nelle ultime tre righe.
Vi racconterò,  in un  prossimo post, la mia giornata newyorchese.
A voi è mai venuta voglia di staccare? Lo avete realizzato?

1 – Continua…