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Incontro a Torbole sul Garda con la Dott.ssa Michela De Petris

Incontro Dott De Petris versione 2

Sono felice di annunciare questo evento che avrà luogo nel mio B&B  a Torbole sul Garda, sabato  22 giugno alle 16:00 e ringrazio la dott.ssa De Petris (Intervista QUI) per aver accettato il mio invito.
Dopo la trattazione ci sarà un ricco buffet vegan che, se il tempo lo consentirà, si potrà  gustare su una bella terrazza.
Spero in una partecipazione massiccia!!!
Riporto i recapiti per richieste di informazioni e/o prenotazioni:
eMail: info@lacasotavegan.it
Cell: 335 14 35 742
Cliccare “Parteciperò” sull’evento della mia pagina Facebook non equivale ad aver effettuato la prenotazione ma è solo un’ indicazione di massima.
Una precisazione organizzativa: Per prenotare è necessario inviare una mail all’indirizzo  indicato specificando  il numero dei partecipanti, il loro nome e un recapito telefonico.
Il pagamento della quota di partecipazione alle spese (30 euro a persona) può essere (via preferibile) versato in anticipo con bonifico bancario ( i dati li comunicherò, a richiesta, agli interessati) o, in alternativa, pagato al momento.
Poiché la dottoressa De Petris viene da Milano (circa 200 km da Torbole) devo avere la certezza del numero dei partecipanti almeno una settimana prima dell’evento in modo che, nell’eventualità non venisse raggiunto il numero minimo delle prenotazioni, possa avere il modo e il tempo di comunicare l’annullamento dell’iniziativa e restituire il denaro a chi ha effettuato il bonifico.
Speriamo di no!!!!!!!

E ora mi ascolto Dexter Gordon in “Blue Bossa

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Intervista a un’educatrice cinofila

Irene e Pinta
Ho conosciuto Irene un anno fa, leggendo un’intervista che rilasciò al Corriere Milano, nella rubrica settimanale “Cambio vita”.
La giornalista, Raffaella Oliva, raccoglieva e pubblicava esperienze di persone che, vittime di lavori insoddisfacenti, di routine alienanti e lontane dalla propria essenza, avevano deciso di dare una svolta alla loro vita cambiando lavoro, dando in tal modo nuove spinte e nuova energia alla loro esistenza.
In quel periodo leggevo e rileggevo il libro di Simone Perotti (Adesso basta!), avida di storie che riconducevano a esperienze di chi aveva cambiato vita, di chi aveva avuto quel coraggio, di chi ce l’aveva fatta.
Non poteva sfuggirmi, in particolare, la storia di Irene per varie ragioni: era della mia città, Milano, aveva lasciato un posto fisso a tempo indeterminato – come quello che avevo io – per occuparsi dell’educazione/addestramento di cani e, altro particolare significativo, proprio in quel periodo, stavo organizzandomi per adottare un cagnolino bisognoso.
A colpirmi fu anche la sua bellezza, davvero mozzafiato, i suoi modi eleganti, il suo stile e il suo sorriso disarmante.
In quel periodo visitavo canili e rifugi per trovare un peloso che si adattasse  alla mia famiglia.
Quell’intervista cadde a fagiolo e mi annotai i recapiti di Irene certa di chiamarla una volta adottato il cane.
La piccola Joy arrivò, tramite l’associazione onlus ICaniSciolti   e poco dopo chiamai Irene per stabilire un primo contatto, capire il funzionamento della “procedura educativa” e avere altre indicazioni e suggerimenti.
La fortuna sfacciata fu che Irene abitasse a 300 metri da casa mia. Quasi incredibile in una città come Milano!!
Le lezioni furono estremamente efficaci e, in poco tempo, seguendo le sue indicazioni – rivolte soprattutto a noi “genitori” – Joy migliorò moltissimo i suoi comportamenti da piccola randagia.
Irene e Joy
Irene durante una lezione con Joy
Irene, da bambina,  cosa pensavi di fare da grande?
Fin da piccola ho sempre avuto una grande passione per gli animali e ho sempre desiderato osservarli. Ero interessata a ogni forma vivente ed ero spinta da una grandissima curiosità ad avvicinarmi a ogni essere animale. Avevo già preso la decisione di lavorare a contatto con gli animali e il mio sogno mi è sempre stato chiaro: quello che volevo era “studiare il loro comportamento”.
Che percorso formativo/professionale hai intrapreso?
Alle superiori ero iscritta al liceo scientifico, con indirizzo naturalistico, e le scienze naturali sono sempre state la mia materia preferita. Poi all’università mi sono iscritta a Scienze biologiche e dopo il triennio ho seguito la specializzazione in Biodiversità ed evoluzione biologica. Materia preferita? Perdutamente innamorata dell’etologia. Studiarla era fonte di continua sorpresa e meraviglia. Mi sono laureata con tesi sperimentale sul campo, studiando le rondini nel loro ambiente naturale.Immediatamente dopo la laurea ho fatto prima uno stage e sono stata poi assunta a tempo indeterminato in una multinazionale farmaceutica.
Ma non era quella la mia strada.
Qual è stata la scintilla che ti ha portato al cambiamento?
Nonostante fosse un ottimo lavoro e anche interessante, passare le ore in ufficio non era quello che volevo. Mi mancavano soprattutto lo studio degli animali e l’aria aperta. Volevo inoltre prendere un cane, ma gli orari lavorativi non mi avrebbero permesso di prendermi cura di lui nel modo corretto.
In quanto tempo hai maturato la decisione di abbandonare il vecchio lavoro?
Ho lavorato in azienda per due anni, ma ho maturato la decisione nel corso dell’ultimo anno. Mentre lavoravo ho cominciato a seguire un corso per diventare educatrice cinofila, con Golfo e Arancio, due cani non miei, e lì è esplosa la passione per questo lavoro.
La tua famiglia come l’ha presa?
All’inizio erano spaventati, hanno cercato di farmi “ragionare”, ma non mi hanno ostacolata perchè si sono sempre fidati di me e delle mie decisioni. Ora sono più tranquilli, soprattutto perchè mi vedono serena, anche se la sicurezza economica ovviamente non è la stessa di prima.
Che tipo di formazione hai per l’attuale lavoro?
Ho ottenuto la qualifica di educatrice cinofila dopo 2 anni e mezzo di corso e un tirocinio nei canili e al fianco di istruttori professionisti. Continuo a tenermi aggiornata partecipando a stage e seminari di professionisti italiani e stranieri e ho cominciato un corso per diventare riabilitatrice comportamentale e ampliare così le mie competenze. Se mi viene gentilmente concesso non perdo occasione di seguire altri professionisti durante le loro consulenze: è utilissimo vedere come lavorano gli altri, ma devono essere altruisti e generosi per permetterlo.
Chi avesse bisogno di un’educatrice seria e professionale come te come fa a orientarsi nell’offerta così disordinata, diciamo pure selvaggia?
La figura dell’educatore cinofilo non è riconosciuta a livello nazionale, quindi chiunque può definirsi educatore, anche chi è solo un dogsitter (e sono numerosi i casi) o ha sempre avuto cani. Anch’io ho guidato la macchina per tanti anni, ma non per questo dico di essere un meccanico. Il mio consiglio è dunque di leggere attentamente il curriculum della persona a cui vi state affidando, per conoscere i suoi titoli accademici e professionali e capire quali siano le sue competenze e da dove deriva la sua esperienza.
Cosa reputi fondamentale nel tuo lavoro?
L’utilizzo di un metodo che sia rispettoso del benessere del cane prima di tutto. Importante anche far capire ai proprietari che il cane non è un robottino che deve darci obbedienza, ma che il fatto che il cane scelga di fare quello che gli diciamo non può prescindere dall’aver costruito con lui un ottimo rapporto che si fondi sulla fiducia reciproca.
1024351 IRENE SOFIA, FOTOGRAFATA AI GIARDINI PUBBLICI
Irene e Pinta, la sua australian shepherd – Foto di Duilio Piaggesi
1024358 IRENE SOFIA, FOTOGRAFATA AI GIARDINI PUBBLICI
Irene durante una lezione – Foto di Duilio Piaggesi
Grazie, Irene, per il tempo che mi hai dedicato.
QUESTO il sito di Irene
QUI un’intervista a Irene realizzata da  Simone Perotti, su RAI5
Dedico a Irene, Destiny degli Zero 7

Intervista a una traduttrice letteraria

Foto dal web

Sono molto orgogliosa di pubblicare questa intervista a Silvia Pareschi, traduttrice letteraria dall’inglese, in trasferta a San Francisco. Di lei avevo già parlato qui  in occasione del nostro incontro a Milano e qui quando ci siamo viste a Torbole, anche con Rose, nel mio B&B.
Prima di incontrarla in rete, più di un anno fa, e di persona più recentemente, ignoravo quasi totalmente la figura del traduttore. 

Conoscevo unicamente Fernanda Pivano, che ha dato un contributo fondamentale alla conoscenza della letteratura americana in Italia.
Non che pensassi che i libri si traducessero da soli ma la mia concentrazione era calamitata unicamente dall’interesse per il libro dell’autore straniero, per la trama, il modo di scrivere, i dialoghi.
Ora quasi mi vergogno all’idea di non essere stata sfiorata dal pensiero che dietro un buon testo di un autore straniero ci fosse  il traduttore, un professionista che proprio grazie al suo lavoro interessante e importante contribuisce al successo di un testo e del suo autore nonchè alla sua divulgazione.
Non avremmo mai potuto leggere importanti  testi di autori stranieri (ad esclusione di chi ha la fortuna di conoscere bene una o più lingue) senza il lavoro del traduttore.
Silvia, nonostante svolga una professione importante e di grande rilievo culturale e sia una persona di grande cultura e dai molteplici interessi, è una persona simpatica, diretta, affabile, dal sorriso accattivante. Inoltre, il suo stile elegante e i suoi modi raffinati mi hanno veramente conquistata.
Sono veramente felice di averla incontrata. E la ringrazio tantissimo per avermi dedicato il suo tempo.

Silvia, quando hai deciso che avresti fatto la traduttrice letteraria?
Da ragazzina, prima di iscrivermi all’università, avevo il vago desiderio di diventare traduttrice di letteratura… russa. Dopo essermi laureata in russo, però, cambiai idea e decisi che non sapevo più cosa volevo diventare.
Che percorso di studi e formazione sono  indispensabili per essere un buon traduttore?
Se volete un percorso lineare e sistematico, non fate come me! Dopo la laurea in russo provai diversi lavori, poi mi iscrissi a una scuola di scrittura dove venni “scoperta” da una importante traduttrice. Oggi ci sono molti corsi, universitari e di perfezionamento, a cui ci si può iscrivere. Poi comincia la gavetta, e lì ci vuole senz’altro anche un po’ di fortuna.
Perchè, secondo te,  il traduttore, pur essendo una figura importante, è trascurato e resta sempre nell’ombra?
Ci sono tanti motivi. Da una parte esiste la convinzione che basti conoscere una lingua per diventare traduttori; dall’altra manca l’attenzione – da parte degli editori prima di tutto (non sempre ma spesso), e poi dei recensori – per l’importanza di una buona traduzione. E poi la buona traduzione, per definizione, non si nota. Tutti la notano solo quando è brutta!
Puoi raccontarci come avviene il tuo lavoro, operativamente, a partire dal primo contatto?
In genere è la casa editrice che mi propone una traduzione. Quando comincio a tradurre un libro, di solito faccio una prima stesura il più possibile accurata, seguita da una rilettura molto attenta e minuziosa, fatta confrontando il testo tradotto con l’originale, parola per parola. Al primo giro la concentrazione è tutta sulla singola parola; con la seconda stesura comincio a lavorare sul testo per creare una prosa fluida e aderente allo stile dell’autore. La terza fase è una rilettura più veloce, quasi da lettrice “comune”, nella quale cerco di “sentire” il testo come se fosse stato scritto direttamente in italiano. A questo punto il libro passa all’editor/revisore, che dopo un primo giro di correzioni me lo rimanda da controllare. Infine, dopo il confronto e le discussioni con l’editor, il libro viene messo in bozze, e in questa fase effettuo un’altra rilettura per dare la mia approvazione finale.
Hai dei colloqui preliminari con l’autore? O hai solo dei contatti con la casa editrice?
I colloqui con l’autore avvengono di solito in corso di traduzione, dopo una prima stesura in cui individuo i dubbi da sciogliere e i chiarimenti da chiedere. Di solito sono dialoghi molto interessanti e proficui – per me, senz’altro, ma a volte anche l’autore scopre qualcosa di nuovo, un punto di vista diverso sul proprio testo. La cosa più emozionante è quando riesco a incontrare gli autori di persona, dopo essere entrata a fondo nelle loro opere e aver dato loro una voce in italiano.
Molte parole sono pressochè intraducibili o, quanto meno, la traduzione ne penalizza il significato. In quel caso come ti comporti?
Le soluzioni variano a seconda dei casi. Si possono usare perifrasi, “note interne” per spiegare il significato di una certa espressione, oppure, là dove ci sono giochi di parole, ricreare qualcosa di equivalente in italiano. L’importante è mantenere l’intenzione, l’effetto che l’autore voleva creare in quel punto della narrazione.
Silvia, hai avuto dei maestri? Se non li hai avuti, a chi ti sei ispirata?
Sono stata molto fortunata, perché ho avuto non una, ma ben due maestre eccezionali. La prima è stata Anna Nadotti, grande traduttrice di A. S. Byatt, Amitav Ghosh e molti altri, che mi ha “scoperta” durante un seminario e mi ha segnalata a quella che sarebbe diventata la mia seconda maestra, Marisa Caramella, grande traduttrice ed editor dalla quale ho imparato molto di quello che so.
Quali autori hai tradotto?
Ne ho tradotti tanti. Jonathan Franzen, Junot Díaz, Denis Johnson, Julie Otsuka, Nathan Englander,Nancy Mitford, E. L. Doctorow, Amy Hempel, Annie Proulx, Don DeLillo, Cormac McCarthy e molti altri, fra i quali anche mio marito, Jonathon Keats, di cui ho tradotto Il libro dell’ignoto per la casa editrice Giuntina.
Vivi un po’ in America e un po’ in Italia per esigenze legate alla tua professione o solo per motivi personali?
Un po’ per entrambe le cose. Diciamo che i motivi personali si sono incastrati perfettamente con le esigenze professionali.

Dedico a Silvia uno strepitoso brano di Dave Brubeck “Take five“.

Intervista a un Medico vegan

Ho incontrato la dottoressa Michela De Petris nel giugno scorso, in un momento in cui sentivo più forte l’esigenza di far valutare a un Medico Vegan- e non il solito esperto in veganesimo che impazza sul web sbandierando corsi e relativi attestati e certificazioni più o meno attendibili – se la mia alimentazione vegan fosse bilanciata e senza alcuna carenza. Avevo bisogno, inoltre, di perdere quei 3 kg di peso, fastidiosa e ancora tangibile presenza del mio fantastico periodo newyorkese che, con lo struggente nostalgico ricordo della Grande Mela, mal si attagliava.
Mi sentivo fuori forma, diciamo. E avevo bisogno di seguire un regime alimentare controllato, sano e vegan e, preferibilmente, non affamante.

Una brevissima ricerca su internet mi ha condotto alla dottoressa Michela De Petris. Non solo avevo trovato il Medico Vegan ma era donna, come preferivo, e di Milano, la mia città!
Le scrissi subito una breve mail nella quale le spiegavo i motivi per i quali avrei desiderato incontrarla.
Mi fissò un appuntamento di lì a pochi giorni, presso il suo studio.  Non voglio dilungarmi sulla dieta nei particolari (anche perchè si tratta di un regime alimentare ad personam) né  sulla visita ma solo sul fatto che lo schema prevedeva 3 pasti principali e due spuntini composti con alimenti facilmente reperibili, vari, gustosi, sazianti e in dosi non affamanti: pasta, riso, polenta, pane, marmellata, frutta, verdura, legumi, ma anche tofu, seitan, tempeh, panini imbottiti per un pasto veloce e perfino la pizza marinara.
Insomma, non solo ho perso i famigerati 3 kg (a dire il vero ne ho persi 4) ma li ho persi senza frustrazioni, senza tristi rinunce, senza carestie che, prima o poi, avrebbero portato  – ne sono certa – a qualche pericoloso sgarro.

Dottoressa De Petris, se dovesse brevemente descriversi, cosa direbbe di lei?

Sono medico chirurgo (laurea con lode in Medicina e Chirurgia, nel 2000 a Milano), specialista in Scienza dell’Alimentazione (specialità con lode, nel 2004 a Milano) e mi occupo con passione di tutto ciò che è nutrizione. Ho lavorato per diversi anni all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano come ricercatrice in studi di intervento alimentare per la prevenzione e la terapia dei tumori ormono-sensibili (mammella, colon, prostata) e, con molta soddisfazione, ho potuto constatare come anche in ambito oncologico, l’esclusione di cibi animali dalla dieta sia potentemente protettiva e curativa.
Sono Membro della Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana (SSNV) e dell’Istituto per la Certificazione Etica ed Ambientale (ICEA) nonché  Docente di Nutrizione Clinica nei corsi di Alimentazione e Benessere indetti dalla Regione Lombardia e dalla Provincia di Milano.
Ho scritto il libro “Scelta Vegetariana e Vita in Bicicletta”, Il Pensiero Scientifico Editore (aprile 2012)

Quali sono le maggiori richieste dei pazienti?
Fino a qualche anno fa le richieste più frequenti di colleghi e pazienti erano di poter trattare le comuni patologie cronico-degenerative (obesità, ipercolesterolemia, diabete, osteoporosi, gotta…) con un adeguato programma alimentare; negli ultimi tempi invece sempre più persone vengono per imparare a nutrirsi in modo corretto, per stare meglio con se stesse e per prevenire l’insorgenza di eventuali malanni futuri.

Sono molte le persone che scelgono uno stile alimentare vegan?

Con molto piacere posso affermare che il numero di soggetti che sceglie di limitare (o anche eliminare del tutto) i cibi animali è in costante e cospicuo aumento e che nessuno ritorna mai sui suoi passi! Anzi, sono proprio i pazienti a dirmi con orgoglio che non riprenderebbero più a mangiare come una volta! In quanto dietologa, mi capita di avere a che fare con varie tipologie di individui: dal carnivoro convinto, all’adolescente attento alla linea, all’atleta professionista, all’ottantenne amante dei dolci ma con la glicemia un po’ troppo alta, alle numerose donne vegetariane in gravidanza con la precisa intenzione di svezzare vegan i propri bimbi. Pazienti tutti molto attenti e ben disposti a migliorare le proprie abitudini alimentari. Di soddisfazioni ne ho tante, soprattutto con chi, da sempre abituato a mangiare carne, formaggio e latte in quantità, decide di cambiare vita e scopre come sia fisicamente, intellettualmente e psicologicamente molto più vantaggioso limitare il consumo di cibi animali a favore di tutti i numerosi vegetali che abbiamo a disposizione (che molto spesso non conosciamo o non sappiamo come utilizzare!) come: cereali, legumi, verdura, frutta fresca, secca, alghe e semi oleaginosi.
Scelta di vita non solo fattibile, ma auspicabile e ben caldeggiata da sempre più numerose Società Scientifiche di fama mondiale (ADA, WCRF, AIRC…) e da studiosi di grande rilievo come il prof. Umberto Veronesi dell’Istituto Oncologico Europeo e il dott. Franco Berrino, epidemiologo dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano.

Eccomi quindi a disposizione di tutti coloro che vogliono mettersi in gioco per investire sul proprio benessere (attuale e futuro) in modo naturale (niente farmaci o diete da fame), gustoso (si possono preparare ottimi dolci anche senza usare burro, uova o zucchero!) ed etico nel rispetto della propria salute, di quella degli animali e del pianeta.

Lei ha un cane, Igloo. E’ vegano?

Sì, il mio cane Igloo ha 17 anni, è vegano e sta benissimo.

Dottoressa, che tipo di musica ascolta?

Mi piace ascoltare i suoni della natura ma anche la musica classica. Purtroppo non ho molto tempo per ascoltarla: preferisco una bella passeggiata al parco con il mio Igloo.

E ora ascolto un magnifico Dave Matthews in Bartender


Intervista a due creativi


Giusy e Stefano, li ho conosciuti un annetto fa sul web. Ero a New York per frequentare il corso di oreficeria allo Studio Jewelers  (QUI come passavo le giornate in laboratorio…) e, per approfondire certe tecniche, alla sera cercavo su google i siti che potevano darmi le risposte che cercavo.

Anche perchè – è quasi un paradosso – imparavo la terminologia tecnica in inglese ignorando completamente quella italiana. E mi interessava conoscere i termini tecnici e la strumentazione nella mia lingua anche per poter rifornirmi del materiale necessario esprimendo le opportune richieste.

Grazie alle spiegazioni trovate sul sito di Giusy e Stefano, sono riuscita a trovare molte indicazioni. Ma alcune cose volevo ulteriormente approfondirle e così, con un po’ di faccia tosta (che si acquista vivendo sola in una megalopoli e a 6000 km da casa) ho inviato loro un email.

Non solo ho avuto subito la risposta ma è intercorsa, successivamente,  una fitta corrispondenza virtuale che, man mano, travalicava l’argomento meramente tecnico entrando in aree più personali e private che non potevano non finire nella promessa di un incontro, al mio rientro in Italia.

Durante la corrispondenza abbiamo scoperto molti punti di interesse, a partire dalla musica (sono anche musicisti), dall’amore per gli animali, per l’arte, per le moto, per i viaggi. E Giusy non si è mai risparmiata gli incoraggiamenti quando vacillavo e vedevo tutto difficile e oscuro…

L’incontro è avvenuto a Levico Terme, dove hanno l’attività di orafi da 20 anni (provenienti dal Friùli) e dove ho potuto vedere le meraviglie che crea Stefano e la nuova attività di Giusy legata alla trasformazione delle immagini fotografiche.

Alla sera abbiamo concluso la nostra giornata in un ristorante veg poco distante da Levico: Veg Point – Via Alberè 22 – Tenna (TN) – Tel 0461/700149.  E posso dire che anche questo incontro è stato estremamente ricco e positivo, concludendosi con questa intervista.

Stefano, da quando hai iniziato a interessarti di arte orafa?

Dopo le superiori (geometra) e un lavoro come aiutante elettricista, ho iniziato a frequentare un laboratorio orafo nel mio paese d’origine: Codroipo, in provincia di Udine. Qui ho assaporato il piacere del lavoro artigianale, e scoperto una vocazione per quest’arte. E’ strano perché non avrei mai pensato di lavorare nell’ambiente orafo: da un lato non avevo interessi di questo tipo, dall’altro avendo alcuni cugini a Valenza Po (in provincia di Alessandria, tra i più grandi poli orafi d’Italia  – l’altro è Vicenza) che lavorano come operai orafi in vari laboratori o ditte, avevo già catalogato quello come un lavoro settoriale, di pura manovalanza, non adatto a me. L’artigianato è tutta un’altra cosa: segui una creazione dall’inizio alla fine, godendo di tutti i passaggi e vedendola crescere tra le tue mani: è decisamente più soddisfacente e completo, come lavoro!

Chi è stato il tuo maestro (o la tua scuola)?

Non ho fatto scuole d’arte ne’corsi specifici di oreficeria; dall’orafo che ho frequentato al mio paese ho “rubato” molto con gli occhi, e quando mi ha fatto provare l’attività presso un suo collega a Udine, le basi venivano già da sole! Poi lì sono rimasto “a bottega” per parecchi anni e ho imparato l’arte orafa in tutte le sue sfaccettature. La scuola è sicuramente importante, ma non c’è niente di meglio che imparare direttamente sul campo. Tanto la creatività e l’estetica o le hai o non le impari con una scuola, mentre tutti i problemi tecnici che affronti in un laboratorio di creazioni e riparazioni ti preparano alla vita reale e alla possibilità di avviare con competenza un’attività in proprio.

Che cosa o chi, dal Friùli, vi ha spinto in Trentino?

Stefano: Il caso, come spesso capita. Siamo venuti  in ferie in zona per un paio di anni e il luogo ci è piaciuto: entrambi siamo appassionati di montagna, tanto da dedicarci poi a trekking e ferrate. Giusy si stava laureando senza avere prospettive di lavoro se non all’estero, mentre io, dopo tanti anni di lavoro sotto padrone, sentivo che potevo espormi in qualcosa di più personale.

Abbiamo scelto un posto non troppo dissimile dalla nostra pianura ma con tante montagne interessanti attorno, ci siamo lanciati e… eccoci qua! Nel 1992 abbiamo aperto il nostro Laboraotrio Orafo NIGI (www.nigilab.com). Giusy mi aiuta molto nella gestione dell’attività permettendomi di dedicarmi esclusivamente al lavoro “da banchetto” ma nel contempo si esprime anche lei realizzando alcuni modelli personali.

Cos’è che caratterizza le creazioni NIGI?

In Friuli ci sono parecchi laboratori orafi piccoli, per lo più a conduzione familiare, dove si realizzano gioielli secondo un’antica tradizione longobarda, ed è questa che ho sviluppato. I gioielli vengono realizzati con il metodo della “fusione a cera persa” (ossia si lavora prima la cera e poi la si trasforma in metallo) e vengono scolpite delle parti che successivamente non saranno lucidate: questo gioco di oro-lucido e oro-grezzo è tipico delle popolazioni antiche e in Trentino non si vedevano esempi di questo tipo. Abbiamo proposto questa nuova lavorazione


che ha avuto successo sia tra i clienti locali sia tra i turisti,  stranieri e italiani. Alcuni conoscono questa lavorazione con il termine di “oro etrusco”, anche se non sarebbe del tutto corretto in quanto i gioielli antichi di quella zona venivano realizzati con la tecnica della granulazione.

Comunque lavoro anche direttamente il metallo e con la fusione a cera persa realizzo anche gioielleria classica, tutta lucida.
Altre creazioni di Stefano:

So che partecipate anche a mostre, eventi ecc. Cosa ci racconti in proposito?

L’Associazione Orafi in Tentino è ben organizzata creando così eventi e mostre di ogni tipo. Periodicamente realizziamo quindi dei gioielli in tema per le varie mostre (www.nigilab.com/IN ), ma siamo stati inseriti anche nell’Annuario dell’Artigianato Artistico Italiano, nel 1997, e siamo stati segnalati al Premio ArtigiAno 2010 per “la capacità di tradurre in un gioiello la spiritualità di un gesto”: l’opera per il concorso era “Il Segno della Croce”, una croce realizzata con due fili contigui che seguono quel gesto sacro,
appunto: ora questo è il nostro prodotto di punta, quello che più ci caratterizza in zona.
Di tanto in tanto ci occupiamo anche di attività didattica ospitando scolaresche nel nostro laboratorio o eseguendo dimostrazioni pubbliche. Ho sempre amato divulgare il mestiere, spiegando ai clienti i vari passaggi delle lavorazioni e sviluppando un negozio con laboratorio a vista.

Adesso mi sto attivando per diventare Maestro Orafo, ma è un processo molto lungo, distribuito in più anni.

Giusy, tu sei laureata a Ca’Foscari in Lingue e Letterature Orientali e hai viaggiato molto in India. Che cosa ti resta di quell’esperienza sia di studio sia di vita?

Sono stati anni molto ricchi, a livello culturale. Ho sempre amato tutto ciò che è “lontano” e diverso, mi piace confrontarmi con culture alternative alla mia, e questo percorso didattico ha soddisfatto queste mie esigenze.

Studiando la filosofia e le religioni orientali ho imparato tante cose: confrontandole con la nostra cultura ho potuto notare come esistano delle Verità Universali, comuni a tutte le civiltà, e questo è ciò che più mi ha colpito e che si è “inciso” dentro di me influenzando tutto ciò che faccio ed esprimo nella mia vita. Non sono i numeri, i nomi e le date che ti arricchiscono come persona, ma i concetti sottintesi a quelli.

Che lingue hai imparato?

L’Hindi, la lingua principale dell’India (in quanto parlata nella zona della capitale) tra le 14 ufficiali nel subcontinente (alcune perfino con un alfabeto diverso!); un po’ di sanscrito, ossia la sua controparte antica, come il greco e il latino per noi europei; infine l’inglese, che ho specializzato in una facoltà parallela: sempre a Ca’ Foscari di Venezia ma alla facoltà di Lingue e Letterature Occidentali, per poter esercitare l’insegnamento, eventualmente. Ah, dimenticavo, il primo anno di studi ero iscritta ad Arabo, per cui ho iniziato a studiare anche l’arabo classico, il tunisino e il libanese, ma ora non li ricordo più molto.

Siete anche musicisti e il vostro gruppo si chiama Talking Sound.  Come è nata la vostra passione per la musica?

Giusy: la musica è stata la mia prima vera passione, ma la mia famiglia non l’aveva realmente capito per cui ho potuto dedicarmi seriamente allo strumento della chitarra solo in età avanzata (dopo i trenta) e una volta trasferitami in Trentino.
Ho preso lezioni dapprima da un vicino di casa, poi ho seguito i corsi di una scuola seria per qualche anno e infine – dopo alcuni anni durante i quali mi sono dedicata alle composizioni di canzoni proprie, suonato in una band al femminile e fondato un “duo elettrico” con mio marito, chiamato appunto Talking Sound –  ho preso lezioni private per un paio di anni sulla chitarra solistica rock e l’improvvisazione jazz. www.youtube.com/talkingsound1  www.myspace.com/talkingsound.
Con il duo ho dovuto anche cantare, per cui ho iniziato a prendere anche lezioni di canto, ma qui ho più lacune…

Stefano: io invece non avrei mai pensato di dedicarmi alla musica –nemmeno qui… mi sa che la mia vita è stata tutta una sorpresa! Ma vedendo quanto impegno ci metteva Giusy, ho detto, perché no? Qualcosa devo fare anch’io nel frattempo! Così ho studiato la batteria, dapprima nella scuola della banda locale, poi prendendo lezioni da batteristi molto conosciuti in zona. Quando il gruppo di Giusy si è sciolto abbiamo iniziato a provare in casa, dove abbiamo una sala prove, e visto che le cose funzionavano bene anche in due, abbiamo fondato questo duo elettrico e iniziato a suonare in giro le canzoni di Giusy, che è molto creativa, in questo senso.

Insomma: Giusy mi segue nell’attività lavorativa e io l’ho seguita nell’hobby della musica!

Che cos’è il “duo elettrico”?

Giusy: per duo, in musica, si intende ovviamente due strumentisti che suonano assieme. Quando c’è di mezzo almeno uno strumento elettrico, si può parlare di duo elettrico. Noi suoniamo la chitarra elettrica e la batteria, ma esistono duo simili in formazione basso-batteria. Siccome questa formazione non è effettivamente molto conosciuta (eccetto il caso dei White Stripes, probabilmente), e che a molti pare perfino una band “monca” in quanto mancante del basso o della chitarra, ho creato una pagina dapprima su Myspace, infine su Facebook dedicata all’argomento e l’ho chiamata Electric Duo Project. Su myspace (www.myspace.com/electricduoproject) ho radunato tutte le band che trovavo, a livello mondiale (mica tante eh, poco più di un centinaio!); le ho personalmente contattate, mi sono fatta inviare una biografia, foto videi e brani musicali che avevo raccolto e pubblicato in vari lettori e album, poi però c’è stato un cambiamento grafico di grande impatto nel social network e ho perso molto materiale. Non ho avuto più tempo per dedicarmi a quella pagina, che è quindi un po’ abbandonata e incompleta, ora.

Su FB ho invece realizzato una pagina in tema radunando le band italiane, e siamo ora tutti in contatto, scambiandoci date di concerti ecc. http://www.facebook.com/?ref=home#!/group.php?gid=173645233591

Infine per anni ho tentato di realizzare un festival in tema, contattando dei produttori  ma quand’era a buon punto è sfumato tutto per carenza di sponsor: eh questa crisi, non c’è settore che non colpisca!

Giusy, ora hai iniziato una tua attività creativa legata all’elaborazione delle immagini fotografiche. E l’hai chiamata Joy Arte Grafica. Innanzitutto, lo sai che ho chiamato  la mia cagnolina Joy  proprio ispirandomi al  nome che hai dato alla tua attività? Comunque, tornando alla tua arte, da cosa nasce questo interesse per la trasformazione delle immagini su tela?

Sì sì, mi ricordo, si chiamava Gaia ma l’entusiasmo per la mia nuova attività ti ha travolto così tanto che abbiamo condiviso questo splendido nome con le nostre passioni… Sai, certe cose nascono quasi per gioco: durante le lunghe serate invernali mi capitava di rimaneggiare un po’ di foto,  e così ho imparato ad usare con destrezza certi programmi fotografici. Esagerando con le elaborazioni ho visto che nascevano cose nuove, insolite ed interessanti, perfino lontane dalle immagini originarie, ed è stata proprio la sorpresa di veder nascere questi nuovi soggetti e le emozioni di gioia che mi comunicavano, che ho scelto questo nome: JOY.
Ora amo fotografare cose stranissime per poi vedere cosa se ne può ricavare.
Dapprincipio ho elaborato i soggetti astratti e i Daemon (nel senso greco del termine, ossia apparizioni di altri mondi che fungono da messaggeri tra gli dei e gli uomini), li ho stampati su pannelli forex (materiale leggero ma resistente, con la stampa direttamente su pannello, non carta fotografica incollata che poi col tempo cede) e decorato la nostra abitazione. L’interesse degli ospiti era sempre di sorpresa e di gioia, e alcuni di loro me ne hanno ordinato qualcuno. Da qui richieste di soggetti più vari e “comprensibili” come fiori, animali ecc. e quindi mi sono lanciata “sul mercato” elaborando soggetti vari.
Ecco alcune creazioni di Giusy

Se qualcuno volesse vedere le tue opere, dove le trova? E come fa ad acquistarle?

Siccome ho iniziato da poco l’attività, per il momento ho realizzato una semplice pagina facebook (www.facebook.com/joyartegrafica); cliccando su “foto” appaiono degli album suddivisi nei vari soggetti del catalogo. Se interessati basta inviare un messaggio o scrivere a joyartegrafica@teletu.it

Intanto ti ringraziamo per l’interesse, la tua disponibilità nei nostri confronti e il bel lavoro che fai con questo blog. E’ stato un piacere essere intervistati da te!

Ringrazio Giusy e Stefano per il tempo che mi hanno dedicato e per la passione che mi hanno trasmesso, ascoltandoli.

Dedico a loro questo bel blues: il grande BB King in Blues Boys Tune


Intervista a uno scrittore

Roberto Curatolo, medico, psicologo, scrittore, viaggiatore.

Ho conosciuto  Roberto Curatolo anni fa quando faceva il Medico del Lavoro in un’azienda sanitaria e da subito, incontrandolo, ne apprezzai la gentilezza dei modi, lo stile, l’eloquio pacato (ingentilito dalla erre alla francese) e la vasta cultura.

Di lui apprezzai, inoltre, la capacità di ascolto, l’attenzione verso gli altri e quella certa malinconia negli occhi tipica di chi sa vivere  con intensità, passione  e senso critico ogni evento, ogni momento,  ogni aspetto della vita.

Ma Roberto, oltre che un bravo professionista scientifico, è anche un apprezzato narratore nonchè scrittore di testi teatrali.

Roberto vive a Milano e ha due figli: Marco – architetto e apprezzato fotografo  a Milano e Andrea – ingegnere ricercatore a Perth – in Australia.

Roberto, quando hai deciso di fare il Medico?
Ho frequentato il liceo scientifico. Già allora mi piaceva scrivere e al termine del liceo avrei volentieri scelto la facoltà di lettere. Ma, a quei tempi (tempi piuttosto lontani) chi proveniva dal liceo scientifico non poteva iscriversi a lettere e a filosofia. Quindi la scelta di medicina fu una sorta di ripiego. Comunque l’interesse per l’argomento non mi mancava. Dopo il primo anno di università, arrivò la riforma che consentiva ad ogni “maturato” di iscriversi alla facoltà che preferiva. Chiesi a mio padre di lasciare medicina e di iscrivermi a lettere. Con molta intelligenza lui mi propose di frequentare le lezioni delle materie letterarie (per trasferire l’iscrizione c’era tempo fino a fine dicembre e le lezioni cominciavano a settembre) per verificare se effettivamente le mie aspettative trovavano un riscontro. Fu un consiglio molto utile: chissà perchè, mi ero messo in testa che mi sarei trovato in una sorta di cenacolo letterario, in un circolo di giovani scrittori, in un ambiente stimolante ed elettrizzante. Invece mi ritrovai in vecchie aule semivuote con professori poco affascinanti e compagni di corso uguali a quelli delle aule di medicina. Va detto che ero giovane, imbottito di fantasie bohemiennes e ancora molto lontano dall’immaginare che l’ambiente letterario non è granchè diverso da qualunque altro ambiente professionale.
Proseguii dunque medicina e non me ne sono pentito. Allora mi interessavano soprattutto le problematiche psicologico-psichiatriche: a quei tempi, nel cercare le cause della malattia mentale, ci si divideva tra organicisti e ambientalisti. Era un confronto molto acceso e io stavo dalla parte degli ambientalisti.
 
La tua attività di medico ha contaminato/condizionato quella di scrittore?
Senza dubbio. Pochi fanno caso al fatto che la storia della letteratura è ricchissima di grandissimi autori che erano medici. Alcuni nomi? Possiamo cominciare da Rabelais per proseguire con Cechov e poi Bulgakov, Cronin, Celine, Maugham, Schnitzler, Conan Doyle, Carlo Levi, Tobino, Lobo Antunes, Crichton e tanti altri. C’è un bel libro francese, “Le bisturi et la plume”, che è una sorta di enciclopedia dei medici scrittori. Perchè tanti medici nella grande letteratura e non altrettanti ingegneri, architetti, farmacisti o biologi? Perchè il medico ha a disposizione, nella sua professione, un’infinita quantità di spunti che gli vengono dalla frequentazione assidua con le storie delle persone, con la nascita, le malattie e la morte delle persone. Con la possibilità di frequentare le loro case e le loro famiglie.
 
Da quando hai iniziato a scrivere?
Ho iniziato a 13 anni. Con la poesia, come fanno in tanti. Fino a 30 anni circa, ho scritto solo poesia. Poi ho capito. Ho capito che la mia poesia non bucava il foglio. Ho letto tantissima poesia. E se leggi la poesia dei grandi, ti rendi conto che cos’è la grande poesia. E allora ho lasciato perdere e ho buttato tutto. Tutto sommato è più facile essere un buon narratore che un buon poeta. Comunque ho conservato la prima poesia: un sonetto per una ragazzina per la quale stravedevo. Anni fa l’ho riletta: ho provato un misto di tenerezza e commozione. Sono rimasto sorpreso dalla potenza dell’innamoramento di quell’età.
 
Da cosa sei ispirato nei tuoi testi?
Sono affascinato dalle storie delle persone. Ascolto e rubo. Sono un ladro di storie. Ovviamente in letteratura “funzionano” di più le storie dei losers, dei perdenti. E anch’io sono affascinato maggiormente dalle storie di quelli che il grande pittore e scrittore Lorenzo Viani definiva i “deplacés”, quelli che stanno ai margini. Non devono essere necessariamente degli emarginati, magari stanno dentro i margini, ma sul confine. E’ un attimo finire fuori.
 
Si sa che nel nostro paese non si legge molto e Internet non migliora questa condizione considerando anche che l’elettronica (eBook) sta sempre più sostituendo i libri cartacei e il piacere del profumo della carta e del fruscio delle pagine.
Cosa ne pensi?
E’ un dibattito molto acceso. Già una quindicina d’anni fa si era cominciato a dire che la sorte del libro cartaceo era ormai segnata. In realtà ciò che ha veramente modificato i rapporti di forza è stato l’arrivo sul mercato dei tablets: quelli, sì, possono veramente far diventare il libro cartaceo un oggetto d’antiquariato. Si dice che i libri faranno la fine dei dischi: scompariranno. Può essere. So che a me continua a piacere di più un libro con pagine da sfogliare e ai cui margini annotare qualche impressione.
 
Hai degli hobby?
Hobby nell’accezione vera e propria del termine, no. Ho molti interessi. Il principale, nella mia vita, è stato viaggiare. Ho conosciuto molti luoghi e molte genti. Credo che chiunque viaggi, con gli occhi aperti e l’animo disponibile, beninteso, non possa che diventare un uomo migliore. Chi viaggia non può essere razzista, settario, fanatico. Ho sognato di viaggiare fin da bambino. E ho cominciato a farlo fantasticando su un atlante di geografia. E poi mi piace molto il cinema, mi piace camminare in ambienti naturali e non antropizzati e, per finire con un’affermazione di sconcertante banalità, sono affascinato dall’universo femminile.
 
Spiegati meglio. Cosa intendi per essere affascinato dall’universo femminile?
Beh, al di là della banalità di condividere con qualche miliardo di uomini questo genere di attrazione, mi sento di aggiungere che sono assolutamente convinto che le donne siano di gran lunga più evolute dei maschi. Sono avanti in fatto di sensibilità, di equilibrio, di praticità. Sono certo che il mondo, in mano alle donne sarebbe molto più vivibile. Non mi piace quando inseguono gli uomini su alcuni terreni, come, ad esempio, quello militare: non sopporto le donne-soldato. Ho avuto la fortuna, sopratutto attraverso le esperienze professionali, ma anche tramite quelle personali, di approfondire la conoscenza dell’universo femminile e di sentirmi spesso in sintonia con esso. E poi non posso dimenticare che oggi la letteratura mantiene il suo ruolo soprattutto grazie alle lettrici: senza di loro la gran parte delle case editrici avrebbe chiuso. Il complimento più bello che ho ricevuto come scrittore è stato quando alcune lettrici, dopo aver letto alcuni miei testi in cui raccontavo storie di donne, magari con la protagonista femminile che parlava in prima persona, mi è stato detto che quei racconti sembravano scritti da una donna.
 
Se potessi scegliere un luogo dove vivere quale sceglieresti?
E’ una domanda che mi mette in difficoltà. Anche se vedo tutte le debolezze e le manchevolezze del nostro paese, ci sono indubbiamente legato. Certo, se avessi un casale nel senese o in Umbria, ci andrei volentieri. Ma non mi piace fantasticare su situazioni irrealizzabili. Ho un figlio che vive in Australia: là mi piace, non è detto che, quando smetterò di lavorare, non vada a trascorrere metà dell’anno laggiù, down under.
 
Che consiglio daresti a una persona che vorrebbe iniziare a scrivere?
Nessuno sa scrivere per dono divino o per capacità congenite. Imparare a scrivere è un percorso lungo e impegnativo. E, potenzialmente, non si finisce mai di migliorare. Ci vogliono tecnica e inventiva. Puoi avere inventiva ma senza tecnica non vai lontano. E puoi avere tecnica, ma se non hai l’inventiva e la sensibilità, scrivi aridamente. Io ho avuto la fortuna di avere un eccezionale maestro, Giuseppe Pontiggia. Frequentai i suoi corsi di scrittura. Già scrivevo, ma quei corsi mi fecero modificare profondamente il mio modo di scrivere. Furono soprattutto un necessario bagno d’umiltà. Quindi a chi inizia a scrivere, consiglio di accettare serenamente le critiche costruttive e di non essere mai convinti di essere un crac della letteratura.
 

Come Maestro di scrittura hai avuto un Signor Maestro!!!
Sì, Giuseppe Pontiggia rappresenta per me un mito. Un uomo di sterminata cultura. Possedeva in casa propria la terza biblioteca milanese, quanto a numero di libri (circa 35.000!). Ho frequentato la sua casa e la sua famiglia. Mi voleva bene e credo che avesse fiducia nelle mie qualità scrittoriali. La sua morte prematura mi ha procurato un dolore profondissimo.

 
E a un giovane che volesse intraprendere gli studi di medicina?
Gli direi, come scrisse Paul Klee, di seguire i battiti del suo cuore. Di intraprendere una via lunga e difficile solo se si sente portato e se ha attenzione per la sofferenza umana. Anche in questo caso, come nella scrittura, la tecnica non basta: sono necessarie capacità d’ascolto e sensibilità. Ai miei tempi, molti si iscrivevano a medicina con la prospettiva di fare soldi. Già allora, però, la professione non era più così remunerata come una volta. E oggi è ancora peggio. Potrei dire che oggi serve ancora più passione rispetto a una trentina d’anni fa.
 
Quando scrivi, ascolti anche musica?
No, quando scrivo, ho bisogno del massimo silenzio. Mi piace moltissimo la musica, presenzio da sempre a molti concerti, soprattutto rock, blues e folk, ascolto la musica appena posso, ma non quando scrivo. Ho bisogno della massima concentrazione.
 
 I LINK dei LIBRI di Roberto
http://www.mannieditori.it/libro/lampi-di-buio
 
Ringrazio Roberto per il tempo che mi ha dedicato, rubandolo alla sua attività, e per la sua deliziosa disponibilità.
Gli dedico un meraviglioso e struggente  Blues di John Lee Hooker con Ry Cooder in Boom Boom, dal vivo alla House of Blues di Los Angeles, uno dei miei luoghi preferiti a LA (buon ascolto!).

Intervista a Nina Zilli

Nell’atmosfera un po’ rarefatta dell’auditorium della FNAC di Milano, Nina Zilli ha tenuto  15 giorni fa, uno show case per il lancio del nuovo CD “L’amore é femmina” che contiene la freschissima performance di Sanremo “Per sempre” .


Quale occasione migliore della ricorrenza dell’8 marzo per pubblicare questa intervista?
Tantissima gente, soprattutto giovani che, rispetto alle atmosfere retrò amate dall’artista, sono una piacevole sorpresa.

In formazione acustica, voce e pianoforte, Nina ci ha regalato momenti molto intensi e ha dato prova di una raffinata potenza vocale. E non é così consueto trovare un tale equilibrio tra potenza e raffinatezza. Molte cantanti moderne, tra le quali anche la vincitrice del festival di Sanremo, confondono la potenza con il volume e il risultato che ottengono é urlare.
Nina Zilli è nome d’arte. Nina in onore della grande Nina Simone e Zilli è il cognome della mamma.

Di te hai detto, in una recente intervista, che sei laureata in “stronzologia”.
Seriamente, sappiamo che sei laureata allo IULM, in Relazioni Pubbliche.
Dacci, quindi, una lettura sociologica di Sanremo.

Sanremo é veramente un’ esperienza fortissima per chiunque. É un vero schiaffo. In un contesto completamente diverso da quello che si vede in TV. É un teatro piccolissimo, un palco microscopico ma queste caratteristiche sono anche il suo punto di forza.
Infatti ti sembra di essere letteralmente immersa nell’orchestra, una sensazione difficile da provare altrove, e il pubblico ti sembra sistemato su di una parete verticale davanti a te.

Il resto é follia pirotecnica. Ti dico solo che per gli artisti ci sono solo cinque camerini, quindi ti lascio immaginare il turbinio di volti, voci e colori. Il vero miracolo é che funziona tutto. Io ho condiviso gli spazi con i Marlene Kuntz e con i Matia Bazar ma in generale tra tutti gli artisti c’era un bel clima di collaborazione.

Anche con le altre ragazze in gara c’é stata un’atmosfera soprattutto di divertimento. Tra tutte mi posso considerare la vincitrice immorale di Sanremo!

Stasera presenti il tuo nuovo disco, prodotto da  Michele  Canova. Cosa ci puoi dire?

É un lavoro bello, a cui tengo molto e la collaborazione con Canova ha prodotto qualcosa di originale e dalla qualità degli arrangiamenti molto elevata.

Pensa che tra i due la vecchia sono io!

Io ho curato in particolare gli arrangiamenti soul e R&B, mentre lui ha aggiunto l’elettronica.

Tra poco comincerà anche il nuovo tour per il nuovo disco. Sei contenta di partire?

Un casino! In tour ci divertiamo tantissimo, suoniamo la melodica e cantiamo i cori alpini. Poi ogni concerto é una festa, anche perché suoniamo in una dimensione che ci fa stare molto vicini al pubblico.

Domanda scontata ma mirata: progetti per il prossimo futuro?

Eh, eh! Lo sapevo… Sí, in TV con Giorgio Panariello. Sembra strano vero? Eppure lui mi ha chiamata, mi ha raccontato del progetto di fare delle serate modello “Studio Uno” o “Canzonissima” e mi ha detto: “Voglio che tu venga a fare Mina per me”.

Dapprima ho capito che dovevo imitare Mina, poi mi ha spiegato meglio il progetto e ho accettato con entusiasmo perché si tratterà di affiancarlo, esattamente come faceva Mina con Walter Chiari, con Celentano o altri artisti di quegli anni. Saranno quattro puntate di lunedì (come Fiorello) su Canale 5 a partire dal 5 marzo. Sarà stupendo, con la grande orchestra di Micalizzi dal vivo. Hai presente? Quello delle colonne sonore dei film degli anni settanta tipo “Milano violenta”… Molto funky!

Perché hai intitolato il disco “L’amore é femmina”? In un clima di politically correct non rischia di passare un messaggio diverso dell’ambivalenza dell’amore?

Ma no! É un gioco. Del resto da Catullo a Ramazzotti d’amore ne parlano solo gli uomini.

Mi piaceva questo gusto un po’ retro della affermazione e poi nel titolo c’é il maschile e il femminile: amore é maschile, femmina é femminile!

Sarà per la pettinatura con cui ti sei presentata a Sanremo, ma molti hanno letto un segno di un tuo omaggio ad Amy Winehouse.

Amy é stata grandissima! Ha puntato il faro su Detroit e Memphis e dobbiamo dirle grazie perché il soul senza di lei non sarebbe esploso.

In realtà, però, cantiamo in modo molto diverso anche se i riferimenti sono comuni: Otis Redding e la Motown.

Una delle canzoni del tuo ultimo album l’ha scritta Carmen Consoli. Chi ha scelto chi?

Non poteva mancare un segno della cantantessa, con cui sono molto amica. É stato facilissimo: le ho mandato via web un provino in inglese e lei lo ha restituito in un batter d’occhio in italiano con un testo originale. Si capisce al volo la differenza tra il suo testo e i miei… Grandissima!

Va di gran moda il duetto. Sanremo ha dedicato una serata ai duetti italiani e una ai duetti stranieri. Con chi ti piacerebbe cantare? Canteresti anche con la Pausini?

Per carità, non sono per ghettizzare la musica! A me va bene reinterpretare qualunque cosa. La Pausini poi ha una voce veramente bella e potente. L’ho vista in uno speciale su SKY dove interpretava standard jazz e blues. Be’ ti posso assicurare che la Pausini che canta jazz é impressionante!

Sei stata scelta dalla giuria speciale per rappresentare l’Italia a Eurovision. Sei contenta?

Sono onorata! Veramente! Non se ne sa molto, ma Eurovision é una manifestazione importantissima in Europa, é seguita da milioni di persone.

Ma il mio sogno resta quello di lavorare in TV con due amici, non posso dirti chi. Ti dico solo due amici musicisti della TV…

Alla fine Nina ci ha regalato due perle, per salutarci: ” Per sempre” e “50mila”.

Grazie Nina e stay soul!

Dedicato a Nina Zilli: Chet Baker in “Almost blue” e un mazzo di mimose della mia terrazza ligure.


Incontro con Margherita Hack


Alla Libreria Hoepli di Milano Margherita Hack ha presentato il suo ultimo libro Perché sono vegetariana – Edizioni dell’Altana ,

intervistata dalla giornalista vegana Paola Maugeri, in presenza di una grande folla, con gente anche in piedi o seduta per terra.
E’ stata una grande emozione ascoltare questa Scienziata, sentirla raccontare, in modo così semplice, diretto e spontaneo, la sua scelta vegetariana,  fin dalla nascita,  grazie al fatto che già i suoi genitori erano vegetariani.

Avrei voluto tanto intervistarla dopo l’intervento e, data la sua semplicità pari alla sua grandezza, probabilmente avrebbe anche accettato ma la folla premeva per farle  firmare  il libro e, di conseguenza, non ho avuto modo di chiederglielo.
Inoltre, era molto raffreddata e, certamente, non in perfetta forma.
Riporto solo alcune delle domande del pubblico in sala e le risposte della Professoressa Hack.
Io non ho fatto domande. Ero tutta orecchie.

Io sono carnivoro ma sono curioso di sapere perché sono più vegetariane le donne degli uomini e se tra 1000 anni saremo in grado di conoscere l’origine dell’universo.
Non sono in grado di capirne il motivo. Probabilmente perché le donne sono più sensibili. Quanto al conoscere l’origine dell’universo, non lo sapremo mai.

Io sono vegetariana ma ho sentito dire che i vegani e i vegetariani soffrono di carenza di B12. E’ vero?
Non ho mai assunto nessun integratore. Sono nata nel 1922 e allora non c’era proprio nulla. Posso solo dire che ho vinto molti tornei sportivi, ho praticato l’atletica a livello agonistico, ho vinto due campionati nazionali universitari. Dopo gli 80 anni ho girato in bicicletta gran parte del Friuli-Venezia Giulia facendo anche 100 km in una mattinata. Fino a 4-5 anni fa ho giocato a pallavolo a livello dilettantistico in un campetto accanto all’Osservatorio Astronomico. Ora ho 90 anni, non gioco più a pallavolo, ho qualche acciacco dell’età ma sto bene pur non avendo mai assunto vitamina B12.
Paola Maugeri ha integrato quanto detto dalla Professoressa Hack: di carenza di vitamina B12 potrebbero soffrirne anche gli onnivori  perché gli animali di allevamento di cui si nutrono non conducono una vita sana e non sono alimentati con prodotti di qualità.

Cosa dà da mangiare ai suoi gatti?
Scatolette.
A questo punto è intervenuta Paola Maugeri per dire che anche cani e gatti potrebbero mangiare vegano. Lei, ai suoi amici  quattrozampe, dà Amicat e Amidog, aggiungendo di ordinarli via internet e di non avere nessun interesse economico a pubblicizzarli.

Io sono quasi vegetariano nel senso che per un 10% mangio pesce azzurro, non di allevamento. Faccio questo ragionamento: è come se mi inserissi nella catena alimentare prima che una cernia divori la sardina che sarà nel mio piatto. Insomma, sono arrivato prima della cernia.
Così pensa di aver salvato la vita alla sardina? (Risata del pubblico. NdR)

Come mai i suoi genitori erano vegetariani, visto che si parla di un’epoca molto lontana?
Il babbo era protestante, la mamma cattolica. Ma entrambi insoddisfatti. Si avvicinarono alla teosofia che, pur sostenendo molte credenze, a mio avviso, indimostrabili, come  lo sono molti dogmi di varie religioni, ha il merito di avere come principio il rispetto di ogni forma di vita. Quindi, erano vegetariani per motivi etico-religiosi. Sono cresciuta vegetariana con naturalezza. Non ho mai mangiato né carne né pesce ma solo l’idea mi ripugna. Quando dico che non mangio carne mi viene offerto il pesce, come se non fosse un animale.

Lo stesso amore per gli animali lo esprime anche verso i suoi simili?
Non faccio agli altri quello che non vorrei facessero a me (Scroscio di applausi. NdR)

Paola Maugeri, vegana da 30 anni, dall’età di 13 anni (dimostra molto meno dei suoi 43 anni!!) ha parlato del suo bambino di 4 anni e mezzo, vegano dallo svezzamento (prima, ovviamente, si nutriva del latte della mamma) e del fatto che sia in ottima salute tanto da definirlo un torello.

Tra una domanda e l’altra la Professoressa Hack ha raccontato episodi della sua infanzia e della sua storia di scienziata, del suo amore per gli animali, dello strazio che ha provato, da giovinetta, nel sentire i lamenti di dolore delle mucche, del vicino allevamento (che, spiegava, un tempo erano più vicini ai centri abitati), quando veniva loro strappato il vitellino appena partorito.

Purtroppo il tempo è volato come vola quando si ascoltano argomenti interessanti e autorevoli, con eloquio semplice e diretto. Tipico delle grandi persone.
Anche Paola Maugeri è molto simpatica.

Dedico alla Scienziata e alla Giornalista questo pezzo, interpretato da una giovane donna di grande Voce e forte Personalità: Nina Zilli inPer sempre”  (purtroppo c’è solo la versione di SanRemo su YouTube)


Intervista a MarthaJ, cantante jazz

Ho conosciuto MarthaJ  di persona, alcuni anni fa, grazie a conoscenze comuni ma non ci siamo mai frequentate e mai più  incontrate.
La conoscevo come cantante di un genere che non incontra il mio gusto ma, sapendo che avrebbe partecipato al festival di Sanremo la seguii in TV. In fondo era una persona che conoscevo e mi faceva piacere dedicarle tempo. Nonostante il contesto, apprezzai la sua voce, certa che potesse sviluppare timbri più vicini ai canoni da me apprezzati.
Il caso, anche questa volta, mi è venuto incontro e mi ha fatto ritrovare MartaJ, di persona, a pochi metri da casa mia. La piacevole sorpresa è stata scoprirla nel firmamento jazz genere che, come noto, accompagna la mia vita e che, purtroppo,  in Italia è ancora di nicchia. Per intenditori…….
Le ho chiesto, quindi, se fosse disponibile a un’intervista per il mio blog.
Quando e come hai incontrato la musica?
Fina da piccolissima (2 o 3 anni) la musica mi ha sempre interessato, rubavo a mio padre i 45 giri di Fred Buscaglione per metterli nel mio mangiadischi. Credo anche di aver cantato da sempre: la mia maestra delle elementari conservava una cassetta in cui c’ero io che cantavo.
Circa in terza elementare ho iniziato lo studio della chitarra classica, che ho lasciato dopo un anno circa: l’insegnante disse a mia madre di non mandarmi più a lezione perché secondo lui io non ero portata per la musica.
Io però ho continuato a suonare la chitarra per conto mio: alle scuole medie ho avuto una botta di Beatles-mania (credo che venga a molti da ragazzini, una specie di morbillo!) e sapevo suonare e cantare tutte (ma proprio tutte!) le loro canzoni. A tredici anni, cantavo con degli amici sulla spiaggia e uno mi ha detto: “Ma lo sai che tu canti come Joni Mitchell?”. Io non sapevo chi fosse e ho cercato i dischi di questa cantante canadese, di cui mi sono innamorata subito. Anche di lei, ho imparato a cantare e a suonare tutte (quasi) le sue canzoni!
Nel frattempo, ho iniziato a conoscere anche altri cantautori americani: Bob Dylan, James Taylor, Tom Waits… E più avanti ho conosciuto il jazz: il primo disco di jazz che ho sentito era un live di Ella Fitzgerald al festival di Montreaux. Sono rimasta folgorata e da allora il jazz non è più uscito dalla mia vita.
Vieni da una famiglia di musicisti?
No, nessuno in casa mia suona strumenti musicali. Però è una famiglia “musicale”: mia mamma ha costantemente la radio accesa e mio padre ha sempre amato la musica e spesso cantava, anzi cantavamo tutti insieme.
So che nel nostro paese vivere di Jazz è difficile. Canti solo jazz o hai dovuto accettare qualche piccolo compromesso, tradendo il jazz?
In Italia vivere di qualsiasi genere di musica è difficile! Se pensi che la paga minima sindacale è di 40,62 euro lordi (il netto è 32,50 euro)… questa paga si riferisce anche a musicisti che suonano in orchestra (diplomati in conservatorio ecc ecc), sia per gli spettacoli che per le prove. Fa ridere, vero?
Comunque tornando a noi: in passato ho avuto l’occasione di registrare album per delle major (PDU/EMI) e di partecipare a festival importanti (o meglio, di grande visibilità) e il repertorio ovviamente doveva rispecchiare le richieste della casa discografica.
Non è stato semplice, anche perché io credo di non essere affatto capace di cantare bene il pop italiano. Soprattutto non è stato semplice cercare di essere quello che non sono, ma tutti mi dicevano che era un’occasione da non perdere, che poi le cose sarebbero cambiate, che in ogni caso ne valeva la pena eccetera eccetera.
In effetti qualche risultato c’è anche stato, anche se non eclatante, ma sempre di più il mondo della musica pop mi stava stretto, quindi ho mollato tutto: ho rotto tutti i contratti e addio per sempre! Così sono diventata un’artista indipendente. E devo dire che sono contenta: ho avuto moltissimi riconoscimenti, nonostante i budget risicati e la mancanza di un’organizzazione che sostiene il mio lavoro (booking manager e ufficio stampa, per esempio).
Sara Vaughan, Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Nina Simone, Diana Krall, Patrizia Laquidara, Simona Molinari……..Qual è la tua musa ispiratrice?
Devo dire che i miei riferimenti sono sempre stati rivolti al passato, quindi Billie Holiday ed Ella Fitzgerald principalmente. Quando ho iniziato a cantare jazz, ho studiato moltissimo, più di tutti gli altri, il modo di cantare di Chet Baker. Ho ascoltato anche molto Nat King Cole.
Per l’improvvisazione, non mi baso su quello che fanno i cantanti (a parte Ella Fitzgerald!), ma sulla improvvisazione di musicisti (ad esempio, ancora Chet Baker): infatti ho studiato e studio improvvisazione con un sassofonista (e non con un insegnante di canto).

Che tipo di orchestrazione preferisci per la tua musica? 
Mi piacciono sia le atmosfere delicate del duo voce e piano, sia quelle più robuste del quartetto. Dal vivo, propongo la mia musica sia in duo (voce e piano), con un Acoustic trio (voce, piano e contrabbasso), con un ElekTrio (voce, tastiere e batteria) e ovviamente anche con il quartetto.
Per ora il quartetto ha rappresentato lo sfondo più utilizzato per i miei album: il primo cd con gli standard jazz (“That’s It!”) era in quartetto: Francesco Chebat, piano – Roberto Piccolo, contrabbasso – Stefano Bertoli, batteria.
Era il 2008 e avevamo prenotato la sala d’incisione per tre giorni. Dopo un giorno e mezzo avevamo già registrato tutti i brani del cd, così siamo rimasti in sala io e Francesco e abbiamo fatto un altro cd, piano e voce, che è uscito contemporaneamente a That’s it” e si chiama “No One But You”.
Le critiche sono state molto favorevoli e questo ha spinto me e Francesco a scrivere 11 brani per un nuovo cd: “Dance Your Way to Heaven” che è uscito nel 2010, sempre con il quartetto.
Il prossimo Febbraio/Marzo sarà disponibile un nuovo album: “Harlem Nocturne”, dedicato ancora agli standard del jazz, questa volta arrangiati secondo il nostro stile e sempre eseguiti in quartetto.

Il fenomeno Amy Winehouse ha portato un po’ di jazz e R&B nel pop. Cosa ne pensi?
Penso che era bravissima, che alcuni suoi brani sono da manuale e che rimarrà un’icona indimenticabile della storia della musica.
E’ incredibile perché se ascolti i suoi cd (non l’ultimo uscito postumo, che mi sembra un po’ così così) non c’è davvero niente di innovativo: ogni brano propone un clichè musicale del mondo R&B, ma così ben fatto e cantato con così tanta originalità che il successo è stato meritato. Impossibile copiarla!
Giovanni Allevi racconta, nel suo libro “La musica nella testa”, di aver bussato al Blue Note di New York fino a che non lo hanno fatto esibire. Pensi che in Italia possa funzionare?
Boh! non ho mai bussato al Blue Note: ci provo e ti faccio sapere!
Secondo me questa di Allevi (come tante altre sue frasi e come anche la sua musica) è una bella trovata che fa colpo, ma non è reale. Non serve a nulla fare una serata in un locale importante, se non hai alle spalle la qualità della musica che proponi, il talento, il lavoro e la fatica… e anche un’organizzazione che promuove efficacemente la tua musica nei canali giusti, l’ocasione di farti sentire anche in radio, eccetera eccetera.
Insomma, una serata al Blue Note non cambia la vita! 🙂
Quali sono i tuoi hobby?
Non ho molto tempo per gli hobby. Leggere può essere considerato un hobby? Leggo tantissimo, romanzi principalmente. Sono stra-fan di Stefano Benni, Daniel Pennac, Fred Vargas… e mille altri che non mi vengono in mente ora.
Una cosa a cui non rinuncio MAI è il mio appuntamento settimanale con lo yoga.
Io sono vegan, per motivi etici. Che tipo di cucina apprezzi?.
Io mangio un po’ di tutto, non seguo una dieta particolare. Mangio pochissima carne, molta frutta e verdura e pasta. Adoro le minestre e la polenta (anche d’estate) e la pizza!
Con il mio lavoro, sono spesso in giro e ho l’occasione di assaggiare piatti diversi, spesso tipici dei luoghi dove mi trovo e questa cosa di assaggiare, provare, sperimentare gusti nuovi mi piace molto.
Non amo i dolci, mi piace il vino, specie rosso e specie quello del nostro nord-est (vini veneti e del trentino). Adoro lo champagne, ma, visto che da qualche tempo abito in zona, sto iniziando ad apprezzare il nostro prosecco.
Non so se riuscirei a seguire una dieta vegan: forse riuscirei a rinunciare a carne e pesce (che già mangio raramente), ma non so se riuscirei a fare a meno di uova e formaggio per esempio.
Grazie MarthaJ!  GO JAZZ!!
Naturalmente sto ascoltando  MarthaJ in The never ending dance.
Per chi vuole scoprire la discografia di MarthaJ, clicchi QUI

Intervista a un artista


Mario Cesàri
è un artista anche se lui non apprezza questa definizione preferendo considerarsi un artigiano. Non che artigiano sia una connotazione inferiore ma per me Mario è un artista con tutte le caratteristiche che questa condizione implica. E’ eclettico, talentuoso, creativo, estremamente sensibile, lievemente ombroso, poco incline alle regole, poco loquace ma attento ascoltatore e disponibile alla relazione, soavemente ingenuo ma non dabbene, acuto osservatore, di vasta cultura, dai molteplici interessi.

Ha scritto articoli e tradotto dall’inglese “Metalwork and enamelling” di Herbert Maryon per la Hoepli, col titolo “La lavorazione dei metalli”.
Mario crea dei capolavori con oggetti umili o che tutti butterebbero via. Un chiodo, un cucchiaio, un’antenna.

Ho conosciuto Mario a Pennabilli,  nella sua casa che è anche il suo studio dove vive con Bigolo, il suo delizioso cagnolino con cui ha un rapporto quasi umano.

Sono stata da lui due volte, per giornate intere a imparare qualche trucco del mio hobby, l’arte orafa,  che elargisce e trasmette con generosa disponibilità, senza nascondere segreti come fa chi non è capace di condividere la propria arte temendo di esserne depredato.
Il talento, infatti, non si può nè rubare nè copiare.


Mario ed io nella sua casa (il collier che indosso è “la calla” in ottone, opera di Mario)

Faccio la modella con una collana in ottone, opera di Mario


Insieme di gioielli

Ho chiesto a Mario quest’intervista e lui, disponibile come sempre, me l’ha concessa.

Mario, da Venezia, cosa o chi ti ha spinto a Pennabilli?
Il caso, naturalmente. All’inizio degli anni ’80 un venditore di auto usate, a Bellaria dove viveva mia madre, le ha proposto di comperare una casa da restaurare.  Mia madre ha chiesto a me e mio fratello di imbarcarci per guadagnare i soldi del restauro. Così ho lasciato la casa di Venezia dove ero in arretrato con l’affitto, ho fatto un imbarco di 5/6 mesi e abbiamo restaurato la casa, da allora sono un pennese.

Che cosa ti ha spinto alla lavorazione del metallo?
Il fatto che sia io che mio fratello siamo radiotelegrafisti di bordo. Beh, una volta mio fratello sbarcando da una nave che andava al disarmo, ha portato a casa l’antenna radio che è fatta di fili di rame da 1mm circa torti assieme, lunga una decina di metri e pesante. Poi, dopo una raccolta di pigne da pinoli per fare un dolce, gli è venuta l’idea di usare il filo di rame per fare un girocollo cui appendere una squama di pigna. Si è messo in produzione, ha teso fili su cui appendere le collane, a decine, per asciugarle dalla vernice protettiva. La sera adava in Piazza San Marco e le vendeva ai turisti. Bei tempi, eravamo una novità, giovani che si davano da fare, e si guadagnava bene.

Da quando?
Ormai da quasi quarant’anni, quando abbiamo cominciato col metallo avevo già fatto quattro imbarchi, anche dopo ho navigato per anni, alternavo periodi di artigianato a terra con periodi di imbarco. Il fatto è che da telegrafista si guadagnava molto ma molto di più che con l’artigianato. Ma da quando esistono le comunicazioni satellitari, il GPS ecc. le navi non hanno più l’obbligo di imbarcare un radiotelegrafista per eventuali SOS. Così ho fatto l’ultimo imbarco una ventina d’anni fa.

Hai avuto un maestro, hai frequentato una scuola?
Ho seguito un corso di incisione e calcografia, ho imparato a forgiare e cesellare da un argentiere a Londra, a fondere in osso di seppia e a usare le pietre da un orafo tradizionale veneziano, a fondere in cera negli USA e in sabbia in Nepal. Ma sono in gran parte autodidatta e devo molto ad alcuni libri, il più utile è stato il libro di Herbert Maryon

Che rapporto hai con le tue creazioni? 
I primi tempi ero molto contento di vendere i miei pezzi anche quelli belli, da un po’ tendo a volerli tenere. A volte tengo per giorni un pezzo ben fatto sul tavolo  per guardarmelo.

Lo consideri un lavoro?
Certo che è un lavoro, vivo del mio mestiere.

Certo che non è un lavoro: nessuno mi dà uno stipendio, non sono impiegato o dipendente.

C’è qualcosa che ti ispira nel creare un gioiello, un oggetto?
A volte una tecnica, a volte un oggetto, un insetto ecc. Più che l’ispirazione, io pratico il riconoscimento. Faccio qualcosa e poi vedo se mi piace o no.

In quale tecnica orafa ti riconosci?
Ci sono delle tecniche che mi piacciono: fusione in osso di seppia, cesello e negli ultimi anni forgiatura. Mi piace limare e odio lucidare.

Come organizzi la tua giornata di lavoro?
Va molto a periodi, in questi mesi lavoro un po’ al banco e molto al computer, tengo corsi, vado a mercati. Quando lavoro al banco mi riempio in poco tempo di pinze, lime, bulini, compasso, punte, fresette ecc. e sembrerebbe una gran confusione. In effetti lo é.

Che tipo di musica ascolti?
Brassens, fado, vecchi blues e tango, standards dai  ’30 ai ’60, classica; ascolto (solo) radio3

Hai degli hobby?
Alcuni si integrano col lavoro, come la macrofotografia o spataccare al computer,  poi ho un po’ di interessi: cinema, libri, economia, ecologia ecc.

Mario, come dicevo, è di poche parole ma, non è una contraddizione, starei ad ascoltarlo per ore mentre racconta la sua vita, quello che fa e come lo fa.

Altri gioielli di Mario:

fibbia


orecchini


pendente


orecchini

gemelli


fibbia

Ascoltando un pezzo di Bob Dylan, suggeritomi da Mario: Joan Baez in Love is just a four-letter word. Gliela dedico.