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Un’emozionante fatica……

Sono tornata da New York da poche ore dove, nonostante la frequenti  da 30 anni, ho vissuto nuove ed eccitanti emozioni. New York è proprio questo. Ho incontrato persone interessanti, rivisto vecchi amici, frequentato dei fantastici ristoranti vegani, visitato musei, ascoltato musica. Ho persino incontrato Isa Chandra Moskowitz nel suo ristorante di Brooklyn “Modern Love”, ho fatto due chiacchiere con lei e scattato un paio di foto. Insomma un soggiorno pieno ed eccitante.
Ma l’emozione più grande l’ho vissuta oggi quando ho ricevuto la notizia della stampa del mio libro.
Un’emozione tanto forte l’ho provata il giorno in cui ho ritirato dalla copisteria la mia tesi di laurea e il giorno in cui l’ho discussa. Avevo in tasca la boccetta di fiori di Bach “Rescue” che tenevo come un feticcio. La maneggiavo nervosamente sperando in un effetto anche solo al tatto….
Quando mi è stato proposto dalla casa Editrice Sonda di scrivere un libro di ricette ho pensato, lì per lì, che non sarei stata in grado. Non avevo mai scritto libri salvo, appunto, la tesi e non avrei saputo da che parte iniziare. Fortunatamente mi sono presa un paio di giorni di riflessione, decisivi per la scelta di accettare.
Mi sono ricordata, infatti, le parole di un mio professore universitario che disse a noi studenti  che scrivere una tesi sarebbe stato propedeutico per scrivere qualsiasi libro. Intendeva dire che aiutava ad acquisire un metodo.
Sono passati tanti anni da quei tempi e da quelle parole ma, riaffiorando nella memoria, sono state la spinta ad accettare.
E’ stato un lavoro a quattro mani: le mie due per cucinare di giorno e scrivere i testi a tarda sera/notte e quelle di mio marito Sebastiano per scattare centinaia di foto ai piatti.
La mia cucina è stata per tre mesi un campo di battaglia e il soggiorno un perenne set fotografico. Non ho potuto invitare nessuno per mancanza di spazio vitale, occupato da obiettivi, cavalletti, teli di sfondo, tovaglie e vari accessori.
Il tavolo e il banco della cucina perennemente occupati da ingredienti, attrezzi, accessori di ogni tipo.
I miei assaggiatori privilegiati – i miei nipoti, Tommaso e Andrea –  erano ogni giorno da noi per cercare di sbafare le preparazioni del giorno. Le loro critiche e apprezzamenti mi sono stati di grande aiuto per mettere a punto le versioni definitive delle ricette. Il giudizio dei bambini, candido e spontaneo, è stato essenziale.
Ora attendo i feedback di chi acquisterà ma, soprattutto, utilizzerà il mio libro mettendo in pratica le ricette.
Nella stesura del libro ho cercato di essere essenziale ma completa nelle descrizioni ma, sono disponibile a dare indicazioni se qualcosa risultasse poco chiaro.
Ringrazio fin d’ora chi mi sosterrà.

Ascoltando Dave Matthews e Tim Reynolds che saranno in plug&play a Milano al Teatro Arcimboldi il 7 aprile (abbiamo i biglietti da mesi….. 🙂  )

 

 

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Difetti insopportabili e inaccettabili…..

invadente

 

Sarò breve…..

Due categorie di difetti non riesco a sopportare nelle persone e, di conseguenza gli umani che  ne sono afflitti (o, meglio, che affliggono): la menzogna e l’invadenza.
Mi sento di sottolineare, senza timore die essere smentita che, pur avendo una miriade di difetti, anche pesanti da sopportare (ne sanno qualcosa i miei cari e mio marito in particolare….ma anche gli amici più stretti o chi ha avuto a che fare con me), non sono né bugiarda né invadente.

Sui miei difetti indugerò in un prossimo post. E’ necessaria una lunga trattazione…..  😉

Alle persone sincere che, pur consapevoli di palesare una debolezza o una mancanza, non sanno mentire; alle persone discrete, rispettose dei tuoi tempi, dei tuoi spazi, delle tue abitudini, delle tue manie, che sanno intuire quando è il momento di avvicinarsi e quando è il momento di allontanarsi perdòno tutto (o, almeno, ci provo e mi impegno).

Intendiamoci, non è che sia una santa…. Altre caratteristiche umane mi sono insopportabili ma riesco a essere più tollerante verso quelle  e, anche se non a giustificare, tendo a dare una spiegazione al loro manifestarsi nonostante mi facciano infuriare. Vedi i razzisti, i saputelli, i presuntuosi, gli arroganti, i maleducati, i raccomandati, i leccaculo, i portaborse, gli opportunisti, gli avari, ecc. ecc.

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Sono stata breve, come promesso. E ora ascolto Stan Getz, grandissimo sassofonista di Philadelphia, morto a Malibu a 64 anni,  in These foolish things…

 


Rieccomi…..con i Waffle al mais!!

waffle2

Rieccomi, dopo un periodo di intenso lavoro (matto e disperatissimo….)  ma anche di  impareggiabili soddisfazioni e gratificazioni.
Finalmente riesco a tirare un po’ il fiato e a soddisfare le numerose richieste dei molti ospiti del B&B – ma non solo – che mi hanno chiesto la ricetta dei waffle.
I waffle sono uno dei piattini caldi, serviti a colazione, che quotidianamente si avvicendano, al mio B&B, come  extrabuffet.
Si alternano con pancake, minidonut, crespelle….
La ricetta è tratta da uno dei miei libri preferiti: “Vegan brunch” di Isa Chandra Moskowitz.
Questa ricetta la dedico ad Alessandra, una deliziosa ragazzina che è stata ospite del B&B con i suoi genitori, altrettanto deliziosi.
Non potrò dimenticare la sua spontaneità nell’esclamare, dopo aver visto il piatto con il suo waffle: “Li adoro!”

Naturalmente per realizzare i waffle è necessario disporre del fattapposta….
waffle1

Ingredienti (per 6-7 waffle):
2 cup (*) di latte vegetale a scelta (io uso riso o mandorla autoprodotto)
1 teaspoon aceto di mele
1 cup e mezza di farina di mais fioretto (quella impalpabile)
1 cup farina, a scelta (io uso la zero ma anche integrale bio)
1 tablespoon(*) lievito per dolci (io uso polvere lievitante per dolci Baule Volante)
1/4 cup zucchero (io uso quello di canna)
1/4 cup olio di mais o girasole (la ricetta americana parla di canola oil)
1/2 teaspoon (*) di sale
Frutta fresca di stagione per guarnire
Sciroppo d’acero

(*) non è un vezzo nè un esterofilia (come mi hanno fatto più volte notare) non tradurre “cup” in “tazza” o “teaspoon” in “cucchiaino”. Le cup  e i teaspoon o i tablespoon sono vere e proprie misure di capacità.  L’alternativa sarebbe quella di scrivere il peso degli ingredienti ma, in questo caso, non li ho mai pesati…. Perdono!!

Procedimento:
Versare il latte in una ciotola e aggiungervi l’aceto di mele.
Lasciarlo da parte una decina di minuti  in modo che cagli un pochino (avverto che non caglia molto ma non importa).
In un grande recipiente versare tutti gli altri ingredienti secchi  (farina di mais, farina, polvere lievitante, sale e zucchero).
Aggiungere il latte – che si era lasciato da parte – e l’olio.
Mescolare bene con la frusta per evitare grumi.
Ungere leggermente con il pennello la piastra elettrica dei waffle e, quando è al massimo calore (nella mia si accende una spia), versare una dose di impasto in entrambe le “cavità”.
Abbassare la piastra e attendere 5 minuti (o secondo le istruzioni del costruttore).
Guarnire con frutta fresca e sciroppo d’acero!
Sto ascoltando uno dei pezzi di Dave Matthews Band che amo di più in assoluto, “Bartender” .
Mi ricorda di quando vivevo a New York, uno dei periodi più intensi ed elettrizzanti della mia vita anche se non il più facile e di quando frequentavo il bar The Bean, vicino a casa (ne ho scritto qui) e mi tuffavo nelle strepitose torte vegan!!!!

E poi oggi è il dodicesimo anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle. Never forget 9/11!!  A dieci anni dalla tragedia ero a New York. Ne ho scritto qui.


Intervista a una traduttrice letteraria

Foto dal web

Sono molto orgogliosa di pubblicare questa intervista a Silvia Pareschi, traduttrice letteraria dall’inglese, in trasferta a San Francisco. Di lei avevo già parlato qui  in occasione del nostro incontro a Milano e qui quando ci siamo viste a Torbole, anche con Rose, nel mio B&B.
Prima di incontrarla in rete, più di un anno fa, e di persona più recentemente, ignoravo quasi totalmente la figura del traduttore. 

Conoscevo unicamente Fernanda Pivano, che ha dato un contributo fondamentale alla conoscenza della letteratura americana in Italia.
Non che pensassi che i libri si traducessero da soli ma la mia concentrazione era calamitata unicamente dall’interesse per il libro dell’autore straniero, per la trama, il modo di scrivere, i dialoghi.
Ora quasi mi vergogno all’idea di non essere stata sfiorata dal pensiero che dietro un buon testo di un autore straniero ci fosse  il traduttore, un professionista che proprio grazie al suo lavoro interessante e importante contribuisce al successo di un testo e del suo autore nonchè alla sua divulgazione.
Non avremmo mai potuto leggere importanti  testi di autori stranieri (ad esclusione di chi ha la fortuna di conoscere bene una o più lingue) senza il lavoro del traduttore.
Silvia, nonostante svolga una professione importante e di grande rilievo culturale e sia una persona di grande cultura e dai molteplici interessi, è una persona simpatica, diretta, affabile, dal sorriso accattivante. Inoltre, il suo stile elegante e i suoi modi raffinati mi hanno veramente conquistata.
Sono veramente felice di averla incontrata. E la ringrazio tantissimo per avermi dedicato il suo tempo.

Silvia, quando hai deciso che avresti fatto la traduttrice letteraria?
Da ragazzina, prima di iscrivermi all’università, avevo il vago desiderio di diventare traduttrice di letteratura… russa. Dopo essermi laureata in russo, però, cambiai idea e decisi che non sapevo più cosa volevo diventare.
Che percorso di studi e formazione sono  indispensabili per essere un buon traduttore?
Se volete un percorso lineare e sistematico, non fate come me! Dopo la laurea in russo provai diversi lavori, poi mi iscrissi a una scuola di scrittura dove venni “scoperta” da una importante traduttrice. Oggi ci sono molti corsi, universitari e di perfezionamento, a cui ci si può iscrivere. Poi comincia la gavetta, e lì ci vuole senz’altro anche un po’ di fortuna.
Perchè, secondo te,  il traduttore, pur essendo una figura importante, è trascurato e resta sempre nell’ombra?
Ci sono tanti motivi. Da una parte esiste la convinzione che basti conoscere una lingua per diventare traduttori; dall’altra manca l’attenzione – da parte degli editori prima di tutto (non sempre ma spesso), e poi dei recensori – per l’importanza di una buona traduzione. E poi la buona traduzione, per definizione, non si nota. Tutti la notano solo quando è brutta!
Puoi raccontarci come avviene il tuo lavoro, operativamente, a partire dal primo contatto?
In genere è la casa editrice che mi propone una traduzione. Quando comincio a tradurre un libro, di solito faccio una prima stesura il più possibile accurata, seguita da una rilettura molto attenta e minuziosa, fatta confrontando il testo tradotto con l’originale, parola per parola. Al primo giro la concentrazione è tutta sulla singola parola; con la seconda stesura comincio a lavorare sul testo per creare una prosa fluida e aderente allo stile dell’autore. La terza fase è una rilettura più veloce, quasi da lettrice “comune”, nella quale cerco di “sentire” il testo come se fosse stato scritto direttamente in italiano. A questo punto il libro passa all’editor/revisore, che dopo un primo giro di correzioni me lo rimanda da controllare. Infine, dopo il confronto e le discussioni con l’editor, il libro viene messo in bozze, e in questa fase effettuo un’altra rilettura per dare la mia approvazione finale.
Hai dei colloqui preliminari con l’autore? O hai solo dei contatti con la casa editrice?
I colloqui con l’autore avvengono di solito in corso di traduzione, dopo una prima stesura in cui individuo i dubbi da sciogliere e i chiarimenti da chiedere. Di solito sono dialoghi molto interessanti e proficui – per me, senz’altro, ma a volte anche l’autore scopre qualcosa di nuovo, un punto di vista diverso sul proprio testo. La cosa più emozionante è quando riesco a incontrare gli autori di persona, dopo essere entrata a fondo nelle loro opere e aver dato loro una voce in italiano.
Molte parole sono pressochè intraducibili o, quanto meno, la traduzione ne penalizza il significato. In quel caso come ti comporti?
Le soluzioni variano a seconda dei casi. Si possono usare perifrasi, “note interne” per spiegare il significato di una certa espressione, oppure, là dove ci sono giochi di parole, ricreare qualcosa di equivalente in italiano. L’importante è mantenere l’intenzione, l’effetto che l’autore voleva creare in quel punto della narrazione.
Silvia, hai avuto dei maestri? Se non li hai avuti, a chi ti sei ispirata?
Sono stata molto fortunata, perché ho avuto non una, ma ben due maestre eccezionali. La prima è stata Anna Nadotti, grande traduttrice di A. S. Byatt, Amitav Ghosh e molti altri, che mi ha “scoperta” durante un seminario e mi ha segnalata a quella che sarebbe diventata la mia seconda maestra, Marisa Caramella, grande traduttrice ed editor dalla quale ho imparato molto di quello che so.
Quali autori hai tradotto?
Ne ho tradotti tanti. Jonathan Franzen, Junot Díaz, Denis Johnson, Julie Otsuka, Nathan Englander,Nancy Mitford, E. L. Doctorow, Amy Hempel, Annie Proulx, Don DeLillo, Cormac McCarthy e molti altri, fra i quali anche mio marito, Jonathon Keats, di cui ho tradotto Il libro dell’ignoto per la casa editrice Giuntina.
Vivi un po’ in America e un po’ in Italia per esigenze legate alla tua professione o solo per motivi personali?
Un po’ per entrambe le cose. Diciamo che i motivi personali si sono incastrati perfettamente con le esigenze professionali.

Dedico a Silvia uno strepitoso brano di Dave Brubeck “Take five“.

NY Bagel


E’ da un po’ che non scrivo e  che non frequento il web salvo qualche incursione  di pochi minuti in FB per pubblicare qualche foto.
E’ un periodo di scarsa, quasi nulla creatività, di indolenza generalizzata, di torpore intellettuale e di disordinate – spesso malinconiche -riflessioni che non portano a nulla.

Questo stato d’animo investe tutti gli ambiti che mi sono congeniali e che, in uno stato d’animo  normale, mi riempiono la vita e danno esplosione alla creatività: inventare o scoprire nuove ricette, creare nuovi gioielli, ascoltare  musica, leggere, avere relazioni, organizzare viaggi e tanto altro ancora. Riesco a malapena a copiare e anche questa volta l’ho fatto con queste bagel.
Le avevo fatte in passato seguendo una ricetta vegan americana ma queste sono migliori, più morbide e saporite. E mi ricordano – aumentando la nostalgia – il periodo vissuto a New York dove le consumavo quasi quotidianamente a colazione, acquistandoli da Whole Food Market, in Union Square.
Il merito è della Capra del blog “La Cucina della Capra” che li ha descritte QUI.

(Tra parentesi, in blu, gli ingredienti della ricetta originale della Capra che ho modificato)

Ingredienti:
500 gr di farine: 250 gr grano duro – 70 gr segale – 80 gr manitoba – 100 gr integrale (500 grammi farina)
50 gr di zucchero integrale di canna
15 gr olio EVO (corrisponde a un cucchiaio da minestra)
1 bustina di lievito secco (1 cubetto di lievito di birra)
2 cucchiaini di sale
semi a piacere (cumino, papavero, sesamo,…)
un cucchiaio di malto d’orzo
250 ml di acqua tiepida (calda)

Procedimento:
Sciogliere il lievito secco e lo zucchero nei 250 ml di acqua tiepida. Aggiungere l’olio e mescolare bene.
In una terrina versare la farina e il sale. Aggiungere la parte liquida alla farina e impastare bene e a lungo.
Lasciare lievitare per 30 minuti in un luogo al riparo dall’aria (io ho lasciato la terrina in forno, senza mai aprirlo).
Trascorso il periodo di lievitazione, riprendere l’impasto e lavorarlo ancora un po’. Nel frattempo portare a bollore una pentola d’acqua.
Mentre l’acqua bolle, formare 12 palline della grandezza di un mandarino (ogni pallina pesava 67 grammi).
Praticare un buco a ciascuna pallina, aiutandosi con il manico di un mestolo di legno e dando loro la forma tipica della bagel, lievemente schiacciata.
Tuffare 4 bagel alla volta nell’acqua bollente, un minuto per lato, aiutandosi con una schiumarola per capovolgerle e, successivamente, per scolarle bene e disporle sulla teglia da forno, rivestita di carta forno.
Pennellare la superficie di ciscuna bagel con il malto diluito in un po’ d’acqua e ricoprire con i semi, a piacere.
Infornare per 20 minuti a 200°. La Capra suggerisce 25 minuti ma il mio forno dopo 20 minuti aveva completato la cottura.
Le proporzioni degli ingredienti sono perfette e, di conseguenza, suggerisco di rispettarle alla lettera.
La riuscita è assicurata! Grazie Capra!
Ho consumato queste delizie a colazione con la crema di nocciole (nocciole pure frullate con il Vitamix) e Nocciolella. E a pranzo con un patè di legumi. Ma seguirò anche il suggerimento di Capra, di consumarli con il caprino vegan.

Ascoltando Etta James in “Purple rain” sperando di risvegliarmi dal torpore e dalla malinconia. Già queste bagel possono aiutarmi….


Per non dimenticare…

L’anno scorso, l’11 settembre ero a New York.
Ripropongo il video che mi inviò Ron, il mio american english teacher.

Ascoltando uno struggente Ry Cooder in Paris, Texas (uno dei film che amo di più).


Auguri all’ America e non solo…


L’anno scorso, il  giorno dell’Independence day  ero a New York. La città trasudava patriottismo  – in certi casi spinto agli eccessi da rasentare il ridicolo e il pacchiano – da tutte  le angolature.
Ho vissuto tre Independence day negli States e l’esperienza è stata sempre molto interessante, se non altro dal punto di vista sociologico (è una mia deformazione….).
L’anno scorso a New York,  il corso che frequentavo era chiuso per l’importante celebrazione e io mi sono divertita come una matta ad andare a caccia di immagini curiose, simpatiche, eccessive.
Comunque, al di là di tutto, AUGURI AMERICA!!

Ma il 4 luglio ricorre anche il primo anniversario di questo blog che, proprio perché è nato in America,  merita particolare attenzione nel Giorno più importante per gli States.
Grazie a questo blog, creato per ridurre quel senso di solitudine per la lunga assenza da casa e in un posto lontano, ho conosciuto persone interessanti e particolari che hanno dissolto – almeno in parte –  attraverso i loro commenti, le loro mail, le loro tracce, la loro costante presenza, quel senso di isolamento che spesso mi assediava, nonostante vivessi in una delle città che più amo.

Ma un augurio speciale è per la mia cara amica Moky, milanese emigrata da 20 anni negli States, che da pochi giorni è diventata americana (e a novembre potrà votare per Barack Obama!).
Moky  non solo è vegan ma è anche una persona generosa, altruista, affettuosa, aperta e intelligente. Ed è una SuperMamma di 4 bellissimi bambini/ragazzini.
A distanza – grazie a Skype –  mi ha aiutato in diverse situazioni di disagio (in particolare, alle Hawaii avevo problemi con le tubature e mi ha aiutato a gestire la padrona di casa…), mi è stata vicina telefonandomi spesso mentre ero a New York, mi ha confortata durante l’Uragano Irene (ero terrorizzata), mi ha  risolto un paio di problemi di spedizioni via Internet con aziende a stelle e strisce che non accettavano la carta di credito italiana, mi ha inviato diversi pacchi pieni di leccornie vegan oltre alla teglia per i donuts grandi e piccoli.
Moky, inoltre, ha tradotto in tempo record (un giorno) il testo (lungo) del sito del mio B&B essendo l’inglese ormai la sua madrelingua, con un entusiasmo per questa mia nuova avventura che mi commuove ogni volta che lo manifesta.
E’ veramente raro trovare una persona che conosca il significato dell’Amicizia. Grazie Moky!
 
I libri della foto li ho letti diversi anni fa e li vorrei rileggere. Ecco perché li ho esposti.

1) AMERICA PERDUTA – In viaggio attraverso gli USA  – di Bill Bryson
TRADUZIONE  di Amedeo Poggi e Annamaria Melania Galliazzo

2) IL DOTTOR SAX – BIG SUR * – di Jack Kerouac
TRADUZIONE  di  Magda De Cristofaro e Bruno Oddera

* Big Sur è uno dei posti più incantevoli che abbia visitato. Si trova al centro della California, a picco sul Pacifico.

Sto ascoltando  John Coltrane in Just Friends.


Un altro bell’incontro e una passata telepatia

E’ un periodo di concentrazione monotematica che mi calamita al solito pensiero fisso nonostante gli sforzi ad affrancarmi e abbandonarmi ad altro..
Il pensiero è  sempre lo stesso, quello rivolto all’organizzazione del B&B che, a breve, dovrebbe avviarsi.
Il condizionale è necessario in quanto sono ancora nella fase burocratica e nelle lungaggini amministrative che sembra non finiscano mai.
Non riesco a seguire con costanza il mio blog perché mi manca  la leggerezza necessaria e il pensiero fisso non mi concede digressioni.
E, purtroppo, faccio fatica anche a commentare i blog degli amici che spero non me ne vogliano. Ma non durerà a lungo questa prigionia mentale.

Ma non posso non raccontare  dell’incontro di oggi con Alessandra. Cercherò di forzare il pensiero  senza  distrarmi, perché lei  lo merita.
Ci siamo incontrate al Parco Lambro per la pausa pranzo, con le nostre schiscette (per i non milanesi, la schiscetta è il pranzo in un contenitore. Qui l’amica Libera  – pur non essendo milanese ma triestina-  ne rivela l’origine più attendibile del termine) e, comodamente sedute al tavolo della nuova area pic nic  – con Joy che gironzolava intorno – abbiamo parlato come se avessimo interrotto la conversazione de visu il giorno prima.

Alessandra ha due bellissimi occhi e uno sguardo intenso, il suo eloquio è pacato e dolce e rivela uno stile discreto e, oserei dire, un po’ british al punto che ho avuto il timore di averla travolta con i miei racconti.

A volte sono un fiume in piena e non mi rendo conto di soffocare l’interlocutore. Spero di non essermi giocata le possibilità future di reincontrare Alessandra.

La passata telepatia del titolo è riferita a una circostanza curiosa che ci ha viste, diciamo, ignare protagoniste.

Ci trovavamo, infatti, lo stesso giorno (senza saperlo  e senza conoscerci) a Newport, in Rhode Island.
Newport non è come New York  -città in cui non è così difficile incontrare persone che si conoscono –  ma è una città  understated, un po’ defilata, poco conosciuta,  se non dagli amanti della vela.
Mi ritrovai nel suo blog cercando informazioni proprio su Newport e da lì mi accorsi, pochi giorni dopo essere stata in Rhode Island, che  una ragazza di Imperia (città a me molto familiare e gemellata proprio con Newport) si trovava lì lo stesso giorno.
Questo il suo post su Newport e questo il mio (osservare le date dei post).
Anche questo, al pari con le altre coincidenze descritte nell’incontro con Silvia e Sara, ha dell’incredibile.

Io, da freudiana pura, penso che nulla sia casuale e che l’intrecciarsi di molte storie non sia altro che espressione di un segnale che non deve essere sottovalutato.

Purtroppo non avevamo la macchina fotografica….

Dedico ad Alessandra una struggente ed elegante Sade in By your side.


“Tacchino” del Ringraziamento

Ascoltando Fly me to the moon nelle interpretazioni delle migliori voci del jazz
Sarah Vaughan
Shirley Bassey
Peggy Lee

oggi festeggio il Ringraziamento, festa tipica americana ma gli US sono la mia seconda patria, visto che mi ci sono anche maritata e per un po’ ci ho vissuto.

Sono 15 anni che lo festeggio e un tempo, da vegetariana salutista (lacto-ovo),  cucinavo  il volatile vero e quel giorno era l’unica volta all’anno in cui mangiavo carne. L’ultimo tacchino vero l’ho cucinato nel 1999 con gli amici e i compagni di università.

Da quando sono vegan la cena del Ringraziamento l’ho sempre festeggiata con menu alternativi ma mai con sostituzioni vegan del tacchino.
Ma, quando ho trovato sul blog dell’amico Yari, la ricetta del “Tacchino” di tofu con ripieno ai cranberries, fagioli rossi e wild rice, non ho resistito e l’ho cucinato.  Risultato: sublime!

Ingredienti per il “tacchino” (100 grammi a persona):
tofu 1200 grammi
salvia essiccata 2 cucchiai
timo essiccato 1 cucchiaino
rosmarino 3 rametti
brodo vegetale in polvere 3 cucchiai
sale marino integrale 1 cucchiaino

Ingredienti per la salsa:
aceto balsamico 50 ml
vino rosso 70 ml
senape 2 cucchiaini
shoyu 2 cucchiai

Ingredienti per il ripieno:
pane secco 120 grammi
tofu 100 grammi
olio evo
mezza cipolla rossa
sedano 1 gambo
cranberries essiccati 50 grammi
riso selvaggio 100 grammi
fagioli rossi 100 grammi
salvia essiccata 2 cucchiai
timo essiccato 1 cucchiaino
alga kombu 3 cm
brodo vegetale in polvere 1 cucchiaio
sale 2 cucchiaini
pepe
insaporitore per arrosti 2 cucchiai

Salse di contorno:
Salsa cranberry (ho usato la Ocean Spray)
Salsa di mele
Purea di patate americane

Procedimento:
Si inizia a preparare il “tacchino”. Disporre  il tofu (il mio è autoprodotto) nel robot, con il rosmarino,  la salvia, il timo, il brodo vegetale in polvere, l’insaporitore e il sale.

              

Prendiamo uno scolapasta

Vi adagiamo un tovagliolo pulito

Disponiamo il tofu insaporito e ridotto in crema.

Lo copriamo con un altro tovagliolo pulito  sul quale appoggiamo un piatto e un peso in modo da pressare bene il composto
   

A questo punto mettiamo tutta l’impalcatura in frigo per l’intera notte.
Mettiamo a bagno i fagioli rossi con l’alga.
L’indomani prepariamo il ripieno. Iniziamo a cuocere i fagioli e l’alga per un’ora e mezza (in pentola normale, non a pressione). Contemporaneamente mettiamo a cuocere il riso selvaggio per un’ora (sempre in pentola normale) in 200 ml di acqua e un po’ di sale.  Al termine della cottura dei fagioli, si toglie l’alga e si aggiunge un cucchiaino raso di sale, continuando la cottura per pochi minuti.
Prepariamo il brodo scaldando 200 ml di acqua e versandovi il brodo in polvere.
Mettiamo i cranberries in ammollo per 10 minuti.
Affettiamo la cipolla e il sedano facendoli cuocere in padella con l’olio per 10 minuti.
Aggiungiamo i cranberries ammorbiditi e cuociamo per altri 5 minuti.

Aggiungiamo 100 ml di brodo e continuiamo a cuocere ancora per qualche minuto.
Tagliamo il pane a cubetti. Schiacciamo i 100 grammi di tofu e aggiungiamo la salvia.
Mettiamo in una ciotola capiente il pane, il tofu, la salvia, il timo e le verdure. Aggiungiamo il brodo rimanente, l’insaporitore di arrosti, il riso, i fagioli, il sale e il pepe.

Riprendiamo  dal frigo il tofu pressato. Togliamo il peso, il piatto e il tovagliolo superiore.

Scaviamo una cavità al centro lasciando un bordo di 3-4 cm .

Riempiamo la cavità con metà del ripieno. Poi richiudiamo con il tofu rimosso e pressiamo bene.

  
Accendiamo il forno a 180 gradi. Prepariamo una teglia foderata di carta forno su cui vi rovesciamo lo scolapasta. Il tofu ripieno si presenterà così:

Prepariamo la salsa di cottura, mescolando aceto balsamico, shoju, vino rosso e senape. Versiamone circa la metà sulla cupola di tofu.

In una teglia oliata mettiamo il ripieno residuo coprendo con la carta stagnola.
Inforniamo il “tacchino” e la teglia con il ripieno (il mio forno gigantesco mi consente di inserire due teglie sulla stessa griglia).
Ogni  15 minuti il “tacchino” va bagnato  con un paio di cucchiai di salsa. Dopo 30 minuti la stagnola della teglia con il ripieno andrà rimossa e, dopo altri 15 minuti verrà tolta la teglia. Il ripieno verrà servito come contorno al “tacchino”.
La cupola di tofu andrà tenuta in forno per altri 45 minuti per un totale di cottura di un’ora e mezza, continuando a bagnarla ogni 15 minuti. Aspetteremo un’oretta prima di tagliarlo.

  

e apprezzarlo nella sua bontà, accompagnato da salsa cranberry, salsa di mele e  purea di patate americane, continuando ad ascoltare  sempre e solo jazz.