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Intraprendenza, ottimismo, generosità

Sono le caratteristiche che aveva Lidia , mia madre (ne parlavo qui), avvertibili anche da chi la incontrava per la prima volta. Si coglievano già dallo sguardo, dalla vigorosa stretta di mano, dal sorriso dai denti bianchissimi e bellissimi. Voglio ricordarla così, a distanza di 10 anni dalla sua morte, da quel 22 marzo 2013.

Non è stato un rapporto facile, anzi, è stato un rapporto molto intricato, a volte oscuro e spesso inespresso. La sua intraprendenza, lodevole quando era espressione di grinta, ingegno ed efficienza per trovare soluzioni nelle cose pratiche, talvolta approdava nella mia vita in interventismi e intrusioni, costringendomi a pesanti rinunce. A 13 anni sognavo il teatro – di diventare attrice, intendo – tanto che insistetti affinché mi portasse a fare un provino. Abitavamo a Milano e mi portò al Teatro dell’Arte dove superai il provino ma la Direttrice mi disse che avrei dovuto prima finire le scuole superiori e solo allora se ne poteva riparlare. Sono certa, certissima, che fu mia madre a suggerirle quella raccomandazione. E tutto finì lì anche perché mia madre, dopo la separazione – pochi mesi dopo il provino – si trasferì da Milano a Verona.

Lasciare Milano per trasferirci in un’anonima provincia, un luogo sconosciuto, senza alcun legame e senza conoscere nessuno, fu una cura (palliativa) solo per mia madre, vittima di un abbandono traumatico che la indusse a lasciare la città dove aveva sofferto. Per me fu un grande trauma e ancora oggi, a distanza di anni, ricordare Verona è sconvolgente. Fu devastante, infatti, a 14 anni, abbandonare la mia città, le mie amicizie, nonna e zia paterne, i luoghi che amavo, la scuola superiore in cui mi ero iscritta e ritrovarmi catapultata in luoghi ignoti e ostili. Sì, ostili, perché Verona era una città chiusa, poco accogliente dove ero “la milanese”.

I paletti che mise mia madre ai miei desideri e progetti di vita furono altri ma non voglio descriverli per non dilungarmi. Dico solo che la mia vita avrebbe avuto, inevitabilmente, altri effetti, altre conseguenze, altri risultati.

Le ho perdonato tutto.

Lidia era una donna generosa, estremamente generosa. Non ho conosciuto nessuna persona, nel corso del tempo, generosa quanto lei. Forse mia zia Marisa, sua sorella. Era generosa nel dare quello che aveva, disposta alla rinuncia, non solo con me, figlia, ma anche con gli altri. Dava tempo, denaro, cose, energia, parole. Non era attaccata alle cose, alla “roba”, non era schiava del possesso, non era vittima di un millantato romanticismo evocato solo per tenere tutto per sè.

Ecco, mi piace ricordare Lidia per la sua grande generosità e per il suo inattaccabile ottimismo. A volte mi manca per queste sue caratteristiche e avrei voluto averla accanto nei miei periodi bui, ormai inoffensiva perché non più interventista grazie alla mia capacità di impormi e ribellarmi, affinata nel corso degli anni.

Cara Mamma Lidia, ti dedico la poesia di Victor Hugo, augurandomi che possa arrivarti, ovunque tu sia.

La madre

La madre è un angelo che ci guarda
che ci insegna ad amare!
Ella riscalda le nostre dita, il nostro capo
fra le sue ginocchia, la nostra anima
nel suo cuore: ci dà il suo latte quando
siamo piccini, il suo pane quando
siamo grandi e la sua vita sempre

Victor Hugo


25 anni di complicità….

Sono trascorsi 25 anni da quel 7 febbraio 1992. Ricordo che era un venerdì e, quando scegliemmo la data, non mi sfiorò nemmeno da lontano il pensiero del vecchio proverbio”né di marte né di venere ci si sposa né si parte e non si dà inizio all’arte”.
Non mi sfiorò perché non ero/sono superstiziosa sia perché andare controcorrente l’ho sempre ritenuto  stimolante e di buon auspicio.
E poi, come si fa a pensare che nel giorno della Dea dell’Amore, Venere, le cose non potessero andare bene?

E così è stato.
Venticinque anni intensi, vissuti a volte lentamente a volte di corsa ma mai banali o scontati. Venticinque anni sempre ricchi e densi  di emozioni forti e di progetti impegnativi, realizzati sempre insieme, mano nella mano, con complicità, con solidale partecipazione.

Ci siamo anche arrabbiati, io più di te, perché sono impulsiva e spesso vòlta agli eccessi contrari e non ammetto vie di mezzo né sono conciliante ma hai sempre aspettato, con tenera indulgenza, che il mio quarto d’ora di burrasca passasse e tornasse il sereno.
Abbiamo vissuto momenti drammatici e dolorosi. Ma sempre superati insieme.

Abbiamo realizzato sogni, viaggi in luoghi sconosciuti e lontani, abbiamo studiato intensamente, ci siamo divertiti un sacco. Abbiamo adottato la nostra piccola Joy.

Ma il viaggio più bello è quello che realizzo con te ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.
Quando non sei in casa mi manchi e non vedo l’ora che torni.
Ogni tuo ritorno, anche dopo poche ore è una festa.

Sei tutto per me. Sei un tatuaggio indelebile, sei sotto la mia pelle.
I’ve got you under my skin

Con amore

Titti


Compleanno a Parigi

In occasione del mio recente compleanno, la mia famiglia mi ha regalato un viaggio di quattro giorni a Parigi. L’idea è stata bella e l’ho apprezzata ma il soggiorno si è rivelato molto al di sotto delle aspettative.

VIAGGIO: tutto è iniziato male, a partire dalla compagnia aerea ((l’irlandese Ryanair) che, non accettando animali a bordo,  mi ha costretta a cercare una dog sitter per la mia Joy, all’ultimo momento. E, se il buongiorno si vede dal mattino, il resto della vacanza è stato degno del suo inizio.
CLIMA: il clima parigino, si sa, non è quello che uno desidererebbe per una vacanza ma le condizioni che abbiamo trovato si sono rivelate peggio del  previsto: freddo, pioggia o nuvolo e vento.
Non ero preparata a quelle condizioni tanto che ho dovuto comperarmi una felpa da Uniqlo (fortunatamente in saldo a 5 euro).
ALLOGGIO: l’appartamento affittato tramite Homelidays (organizzazione che avevo già utilizzato – e valutato positivamente – per una vacanza a Roma) è stato una delusione: sporco, pieno come un uovo di roba dei proprietari e poco accogliente.
La famiglia che lo affitta (e che probabilmente trascorre l’estate al mare o in montagna o chissà dove e dall’appartamento parigino trae reddito) si è avvalsa di un’agenzia per il check in e il check out (al contrario del proprietario di Roma che trattava direttamente con i clienti) che, alla riconsegna delle chiavi, ha passato al setaccio ogni cosa come se fossimo stati dei vandali saccheggiatori. Si sa, gli italiani non sono mai ben visti ed è sempre meglio controllare…
LA CITTA’: sporca, trascurata, scostante, inospitale e cara.
CIBO/RISTORAZIONE: avevo voglia di provare il tanto decantato Loving Hut parigino sperando di riabilitare la catena in franchising, dopo la valutazione negativa di Loving Hut di New York.  Ebbene, quello di Parigi è stata una delusione forse perché commisurata alle aspettative (alte). Innanzitutto ho notato, da subito, alcuni aspetti negativi (a mio avviso):
1) due schermi TV ai lati del locale, posizionati in alto, senza audio, che trasmettevano (con sottotitoli in una decina di lingue, tra cui l’italiano, ma illeggibili perché mal sintonizzati) immagini di animali sofferenti, ricette, varie comunicazioni pacifiste. Insomma, una macedonia.
Premetto che detesto la TV mentre sono a tavola anche se trasmettesse immagini gradevoli  ma trovo veramente inquietante la diffusione di immagini di sofferenza al momento del pasto. So che gli animali soffrono (da qui la mia scelta etica), che nel mondo ci sono catastrofi, guerre, fame, malattie, situazioni drammatiche. E tutti questi accadimenti si manifestano, purtroppo, sempre e senza interruzioni. Ma, vivaddio, non si può flagellarsi sempre e ovunque, vivere nell’incubo e nell’inquietudine e sempre in tensione.
Almeno per una manciata di  minuti durante il pasto.
2) i fiori finti sul tavolo. Aborro i fiori finti, li detesto, e non vorrei vederli in nessun luogo, tantomeno a tavola.
3) i piatti di melamina (quelli che si usano in barca o nei pic nic). Una vera caduta di stile. Cosa cambiava per l’ambiente, per  il veganesimo, per lo stile etico se i piatti fossero stati di vetro o ceramica?
4) La tovaglia di carta bianca semilucida a grandezza del tavolo. Fa tanto sciatto. Meglio le tovagliette americane, anche di carta.
5) il cameriere totalmente impersonale, senza un minimo slancio di partecipazione. Chiedeva le ordinazioni e portava i piatti senza muovere un muscolo, solo con un sorriso abbozzato, sempre uguale. Gli parlavo in francese e lui rispondeva in inglese. Boh…
6) Il locale totalmente impersonale, freddo, banale, senza calore. Una sorta di “non luogo”.
7) le portate assolutamente banali e scontate ma soprattutto senza una “matrice culturale”: dall’Oriente all’Occidente, con troppa disinvoltura (involtini primavera, spaghetti, zuppa giapponese, veg burger, per citarne alcuni). Se vado al ristorante  voglio, insieme ai piatti, assaporare atmosfera, calore, distinzione, passione. Non vado a sfamarmi dove posso farlo a casa mia.
Il piatto délices des sept mers, l’unico che ho trovato originale.  Gli altri piatti potevano essere realizzati a casa da una cuoca di media bravura.
Perfino da me che non sono affatto una cuoca e tantomeno di media bravura ma molto al di sotto.
Al ristorante non mi aspetto piatti che potrei cucinarmi io a casa.
8) prezzi: l’unico aspetto positivo del locale.

Insomma, meglio ascoltare il sax di Stan Getz in Dreams e dimenticare Parigi.


Buon San Valentino!

Ingredienti:
2oo ml succo puro di mirtilli
1 cucchiaino raso di agar agar
Miscela di fiori e spezie

Procedimento:
Versare, in un pentolino, il succo di mirtilli, aggiungere l’agar agar, mescolare, far bollire un paio di minuti, versare in un vasetto (meglio se a forma di cuore).
Lasciare raffreddare.
Capovolgere in un piatto e decorare con la miscela di fiori e spezie.

Consumare in dolce compagnia…..

Questo braccialettino in argento e bronzo l’ho fatto per me….
…..ascoltando Chet Baker in My Funny Valentine.