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Sogno o realtà?

L’isola Pitcairn (immagine dal web)

Quando, una ventina di anni fa, vidi per la prima volta il film Gli ammutinati del Bounty – film del 1962, con Marlon Brando, regia di Lewis Milestone – rimasi letteralmente affascinata non solo per le vicende avventurose e burrascose (è il caso di dirlo) vissute per molti mesi da un gruppo di marinai della Marina Inglese, per il senso di infinito che evocava una traversata oceanica su un piccolo vascello ma anche per il desiderio fortissimo di raggiungere quell’angolo remoto, quel luogo disabitato, l’isola Pitcairn, una sorta di sfida. A Pitcairn si rifugiarono i rivoltosi per sfuggire alla cattura e all’impiccagione, inevitabile destino riservato agli infedeli e ai disertori.

Il film narrava una vicenda realmente accaduta nella seconda metà del diciottesimo secolo e suscitò in me l’impazienza e l’ardore di approfondire quella storia, i suoi personaggi e i luoghi descritti. Il fascino della trasgressione e dell’inadempienza fu come una febbre che non volevo curare. La mia natura è sempre stata incompatibile e resistente all’autoritarismo e anche all’autorità quando non ne condivido i principi, le modalità e gli obiettivi ancorchè riconosciuti dallo status quo. E lo dimostra la mia carriera professionale che, nonostante i titoli, lo studio, l’impegno e la serietà spesi, è sempre rimasta ferma al palo fino alla decisione, per alcuni scellerata ma non per me, di rassegnare le dimissioni e realizzare altro.

Che cosa mi attraeva tanto di quel luogo e di quella storia? In fondo avevo visitato più volte luoghi bellissimi e lontanissimi nel mondo, dalle culture affascinanti, diverse dalla nostra, ricche di storia e di misteri. Quella vicenda aveva qualcosa in più perché coniugava l’inaccessibilità del luogo e la ribellione all’autoritarismo, al potere dispotico, all’intolleranza, alla tirannide, l’anelito alla libertà. Da allora, quell’ostinato desiderio, ormai saldato nelle retrovie dell’anima, vacillava solo quando, cercando di concretizzare l’organizzazione del viaggio, mi rendevo conto che oggettive difficoltà ne ostacolavano la realizzazione. Difficoltà logistiche, economiche, burocratiche, sanitarie in un’incessante altalena di euforia e delusioni. Per me viaggiare è una filosofia di vita, non è solo mero svago o un temporaneo affrancarsi dalla routine. Viaggiare travolge i pensieri, li accumula e li dipana, li dissolve e ne rincorre altri in un continuo eterno ritorno. Viaggiare è incontrare, scambiare, confrontarsi, liberarsi. Viaggiare aguzza la creatività o la risveglia se è assopita. Viaggiare non è uno stile di vita o di consumo ma assume un potere rivoluzionario. Il mio viaggio a Pitcairn – tra i luoghi più remoti e con meno abitanti al mondo, solo 49 persone – che finalmente sono riuscita a realizzare con mio marito Seb per l’anno prossimo, sarà spartano. Ciò non significa che sarà raffazzonato, impreciso, pressapochista ma essenziale, basico, sobrio. E sarà ricco di incontri.

Oggi l’isola Pitcairn è un po’ più accessibile anche se è fuori dalle rotte turistiche e ancora oggi non dispone né di attracco per le imbarcazioni né di aeroporto. È sempre un’impresa colossale ma meno difficile da realizzare. Ci arriveremo con una nave cargo… Non vedo l’ora di raggiungere quella piccolissima isola abitata dai discendenti degli ammutinati e delle donne tahitiane che li seguirono. E non vedo l’ora di conoscere Brenda e Mike, che ci ospiteranno nella loro casa per alcuni giorni.

La storia dell’ammutinamento del Bounty qui o qui.

Immagine dal web

Ascoltando Across the Universe dei Beatles


Un’emozionante fatica……

Sono tornata da New York da poche ore dove, nonostante la frequenti  da 30 anni, ho vissuto nuove ed eccitanti emozioni. New York è proprio questo. Ho incontrato persone interessanti, rivisto vecchi amici, frequentato dei fantastici ristoranti vegani, visitato musei, ascoltato musica. Ho persino incontrato Isa Chandra Moskowitz nel suo ristorante di Brooklyn “Modern Love”, ho fatto due chiacchiere con lei e scattato un paio di foto. Insomma un soggiorno pieno ed eccitante.
Ma l’emozione più grande l’ho vissuta oggi quando ho ricevuto la notizia della stampa del mio libro.
Un’emozione tanto forte l’ho provata il giorno in cui ho ritirato dalla copisteria la mia tesi di laurea e il giorno in cui l’ho discussa. Avevo in tasca la boccetta di fiori di Bach “Rescue” che tenevo come un feticcio. La maneggiavo nervosamente sperando in un effetto anche solo al tatto….
Quando mi è stato proposto dalla casa Editrice Sonda di scrivere un libro di ricette ho pensato, lì per lì, che non sarei stata in grado. Non avevo mai scritto libri salvo, appunto, la tesi e non avrei saputo da che parte iniziare. Fortunatamente mi sono presa un paio di giorni di riflessione, decisivi per la scelta di accettare.
Mi sono ricordata, infatti, le parole di un mio professore universitario che disse a noi studenti  che scrivere una tesi sarebbe stato propedeutico per scrivere qualsiasi libro. Intendeva dire che aiutava ad acquisire un metodo.
Sono passati tanti anni da quei tempi e da quelle parole ma, riaffiorando nella memoria, sono state la spinta ad accettare.
E’ stato un lavoro a quattro mani: le mie due per cucinare di giorno e scrivere i testi a tarda sera/notte e quelle di mio marito Sebastiano per scattare centinaia di foto ai piatti.
La mia cucina è stata per tre mesi un campo di battaglia e il soggiorno un perenne set fotografico. Non ho potuto invitare nessuno per mancanza di spazio vitale, occupato da obiettivi, cavalletti, teli di sfondo, tovaglie e vari accessori.
Il tavolo e il banco della cucina perennemente occupati da ingredienti, attrezzi, accessori di ogni tipo.
I miei assaggiatori privilegiati – i miei nipoti, Tommaso e Andrea –  erano ogni giorno da noi per cercare di sbafare le preparazioni del giorno. Le loro critiche e apprezzamenti mi sono stati di grande aiuto per mettere a punto le versioni definitive delle ricette. Il giudizio dei bambini, candido e spontaneo, è stato essenziale.
Ora attendo i feedback di chi acquisterà ma, soprattutto, utilizzerà il mio libro mettendo in pratica le ricette.
Nella stesura del libro ho cercato di essere essenziale ma completa nelle descrizioni ma, sono disponibile a dare indicazioni se qualcosa risultasse poco chiaro.
Ringrazio fin d’ora chi mi sosterrà.

Ascoltando Dave Matthews e Tim Reynolds che saranno in plug&play a Milano al Teatro Arcimboldi il 7 aprile (abbiamo i biglietti da mesi….. 🙂  )

 

 


Mongolia, terra di nomadi, misteriosa e sperduta….

mongolia-1 mongolia-2

La mia anima è nomade, come i pensieri che scrivo, di getto, currenti calamo. E, aggiungerei, ex abundantia cordis.
Insomma, butto fuori quello che mi passa per la testa, senza troppe riflessioni.
E ora ho in testa un viaggio in Mongolia. É da un bel po’ che ci penso e vorrei che questa idea, questo desiderio si concretizzasse.
Di viaggi in terre poco frequentate ne ho in mente tanti. Resta sempre il sogno di raggiungere l’Isola di Pitcairn. Mi sa che resterà un sogno anche se ogni tanto mi sforzo di immaginarmi su quell’isola sperduta, senza approdi, senza aeroporti, con meno di 50 abitanti, tutti discendenti dagli ammutinati del Bounty.
Ne avevo parlato qui.

La Mongolia è terra di nomadi, popolo generoso e ospitale, terra misteriosa,  dalla natura selvaggia, dagli spazi immensi ma anche ricca di storia e di cultura.
Un grande mondo antico che, al di fuori dalla capitale Ulan Bataar, vive ancora come ai tempi di Gengis Kahn.
Quello che mi affascina è la sensazione di vuoto che evoca in me, di spazio infinito.
Ho bisogno di abbandonarmi a un mondo non superglobalizzato, non occidentalizzato e vittima del consumismo. Affrancarmi, almeno per un po’, da un mondo che ti bombarda di falsi bisogni. E anche se sei forte ogni sollecitazione è un fastidio.

Ho bisogno di riflessione….

L’unica preoccupazione è il cibo. I Mongoli non sono proprio vegani e, ahinoi, nemmeno vegetariani…. A parte la capitale che offre molti ristoranti vegani, tutto il resto è off limits per noi. Dai, non ho paura di tornare in Italia più magra,  mettiamola così.
E ora, ascoltando queste note struggenti, penso a organizzare il viaggio.
Un bel regalo per i nostri 25 anni di matrimonio.

Se qualcuno ci è stato saranno apprezzatissime le indicazioni.

 

 

 

 

 

 

 


Sognare fa bene alla salute….

new-york

Sognare è sano e fa bene alla salute.  Lasciarsi andare in qualche sogno frivolo e leggero fa bene.

Il sogno più ricorrente che faccio – a occhi aperti – è quello relativo al luogo dove mi piacerebbe vivere.
E il cuore – ma anche la mente – mi porta sempre là, nella città più bella, più affascinante, più emozionante, più turbolenta e vibrante: New York.
Io amo l’America e mi piace visitarla ma non potrei mai viverci, al di fuori di New York (in subordine, Venice beach, in California 🙂  )
New York è cultura, novità, arte, musica, fermento, laboratori d’arte, di musica, artisti di strada, improvvisazioni, contraddizioni, creatività, etnie, cibi da tutto il mondo.

E’ anche parchi, musei, teatri, gallerie d’arte.

New York scoppia di vita e di stravaganze, di colori, di suoni, di eventi, di stranezze, di nuove scoperte.

Ti senti nascosto e, nello stesso tempo, esposto.
Nel 2011 ho vissuto per lungo tempo a New York. Abitavo ad  Alphabet city, all’East Village. Non è un quartiere per turisti e questo mi faceva sentire newyorkese ed era eccitantissimo. Prendevo l’autobus sotto casa per andare al mio corso di orafo. Uscivo con la travel mug fumante di caffè.

Purtroppo a causa della gentrification i quartieri si sono snaturati ma è possibile trovare ancora segreti  e tesori nascosti.
La prima volta che misi piede a New York era il 1987. Ricordo come fosse oggi lo stupore, l’eccitazione, mi sentivo in un film.

La prima cosa che mi colpì fu l’inconfondibile skyline e subito dopo furono i vapori che uscivano dai tombini sulla strada. Un fenomeno che ho visto solo a New York. Ricordi nitidi, fissi nella memoria. Ricordo i profumi di cibo per strada, non sempre profumi delicati e ricordo un odore acre di margarina fritta che usciva da certi locali invadendo l’aria e rendendola irrespirabile.

Le passeggiate a Central Park, le soste di ore in libreria seduta per terra a sfogliare libri alla Barnes&Noble di Union Square, il caffè di Starbucks e l’aria condizionata a manetta. Quella era terribile!

Ecco, questo è il mio sogno, uno dei tanti. Vivere a New York.
Perché New York non è l’America. Nell’altra America, non potrei mai vivere. Sto nella mia Milano che, sotto sotto, è una piccola New York.
E’ proprio di tre giorni fa un articolo sul Corriere, anzi un’intervista a una ricercatrice di New York che ha deciso di venire a vivere a Milano e far crescere qui suo figlio. Perché “Milano è come New York ma a misura più umana”.
Bene, se la ricercatrice ha la casa libera a New York, io mi offro…..

Ascoltando Leaving New York (never easy….) dei R.E.M

 

 


Sognando il viaggio a Pitcairn

Dal sito del governo di Pitcairn

Dal sito government.pn

dal sito government.pn

E’ un vecchio sogno, un desiderio che ha origini lontane e non si è mai placato. Raggiungere Pitcairn, l’isola sperduta nel cuore del Pacifico.
Ne subisco un fascino irresistibile, ostinato e tenace.
Nel mio immaginario rappresenta il luogo della ribellione, l’antitesi dell’uniformità e dell’arrendevolezza.
Sono sicuramente condizionata dalla storia della ribellione dei marinai  del Bounty ma l’idea di un luogo tutt’altro che turistico e di massa, proprio perché difficilmente raggiungibile, mi rapisce l’anima.
Detesto luoghi come le Maldive, Sharm el Sheik o simili,  i villaggi turistici in qualunque parte del mondo –  sono  non luoghi –  i pacchetti all inclusive, i viaggi organizzati e qualsiasi proposta spersonalizzata, uniforme, standardizzata.
Pitcairn per me rappresenta la meta fuori dalle rotte, l’originalità, la passione per il mare, un sano e necessario – ancorché breve –  isolamento.
Insomma, mi sto dando da fare per riuscire ad andarci. Chissà….

Sognando mari lontani, ascoltando il suono dell’ukulele


Propositi per il 2013

lista-di-cose-da-fare

1) Leggere di più
2) Andare di più al cinema (farei contento anche mio marito)
3) Frequentare di più gli amici
4) Mordermi la lingua o, in alternativa, contare fino a 1000 prima di parlare
5) Essere più tollerante con gli altri
6) Mantenere il peso forma
7) Dire più spesso “Ti voglio bene” ai miei cari
8) Mettere in ordine i miei cassetti della cabina armadio (in disordine da mesi e mesi)
9) Organizzare il viaggio in barca a Pitcairn (chissà per quando…., spero di non andarci con la badante…)
10) Essere meno rigida con me stessa
11) Valutare le situazioni più con la testa che con la pancia
12) Mettere la testa a posto (i capelli….)
13) Tornare a guidare la macchina (non guido da 10 anni, mi faccio scarrozzare) e non fissarmi solo con la moto
14) Organizzare il viaggio negli States per andare a trovare le mie amiche  Silvia e Moky

Ascoltando Sonny Rollins in St Thomas


Per non dimenticare…

L’anno scorso, l’11 settembre ero a New York.
Ripropongo il video che mi inviò Ron, il mio american english teacher.

Ascoltando uno struggente Ry Cooder in Paris, Texas (uno dei film che amo di più).


Compleanno a Parigi

In occasione del mio recente compleanno, la mia famiglia mi ha regalato un viaggio di quattro giorni a Parigi. L’idea è stata bella e l’ho apprezzata ma il soggiorno si è rivelato molto al di sotto delle aspettative.

VIAGGIO: tutto è iniziato male, a partire dalla compagnia aerea ((l’irlandese Ryanair) che, non accettando animali a bordo,  mi ha costretta a cercare una dog sitter per la mia Joy, all’ultimo momento. E, se il buongiorno si vede dal mattino, il resto della vacanza è stato degno del suo inizio.
CLIMA: il clima parigino, si sa, non è quello che uno desidererebbe per una vacanza ma le condizioni che abbiamo trovato si sono rivelate peggio del  previsto: freddo, pioggia o nuvolo e vento.
Non ero preparata a quelle condizioni tanto che ho dovuto comperarmi una felpa da Uniqlo (fortunatamente in saldo a 5 euro).
ALLOGGIO: l’appartamento affittato tramite Homelidays (organizzazione che avevo già utilizzato – e valutato positivamente – per una vacanza a Roma) è stato una delusione: sporco, pieno come un uovo di roba dei proprietari e poco accogliente.
La famiglia che lo affitta (e che probabilmente trascorre l’estate al mare o in montagna o chissà dove e dall’appartamento parigino trae reddito) si è avvalsa di un’agenzia per il check in e il check out (al contrario del proprietario di Roma che trattava direttamente con i clienti) che, alla riconsegna delle chiavi, ha passato al setaccio ogni cosa come se fossimo stati dei vandali saccheggiatori. Si sa, gli italiani non sono mai ben visti ed è sempre meglio controllare…
LA CITTA’: sporca, trascurata, scostante, inospitale e cara.
CIBO/RISTORAZIONE: avevo voglia di provare il tanto decantato Loving Hut parigino sperando di riabilitare la catena in franchising, dopo la valutazione negativa di Loving Hut di New York.  Ebbene, quello di Parigi è stata una delusione forse perché commisurata alle aspettative (alte). Innanzitutto ho notato, da subito, alcuni aspetti negativi (a mio avviso):
1) due schermi TV ai lati del locale, posizionati in alto, senza audio, che trasmettevano (con sottotitoli in una decina di lingue, tra cui l’italiano, ma illeggibili perché mal sintonizzati) immagini di animali sofferenti, ricette, varie comunicazioni pacifiste. Insomma, una macedonia.
Premetto che detesto la TV mentre sono a tavola anche se trasmettesse immagini gradevoli  ma trovo veramente inquietante la diffusione di immagini di sofferenza al momento del pasto. So che gli animali soffrono (da qui la mia scelta etica), che nel mondo ci sono catastrofi, guerre, fame, malattie, situazioni drammatiche. E tutti questi accadimenti si manifestano, purtroppo, sempre e senza interruzioni. Ma, vivaddio, non si può flagellarsi sempre e ovunque, vivere nell’incubo e nell’inquietudine e sempre in tensione.
Almeno per una manciata di  minuti durante il pasto.
2) i fiori finti sul tavolo. Aborro i fiori finti, li detesto, e non vorrei vederli in nessun luogo, tantomeno a tavola.
3) i piatti di melamina (quelli che si usano in barca o nei pic nic). Una vera caduta di stile. Cosa cambiava per l’ambiente, per  il veganesimo, per lo stile etico se i piatti fossero stati di vetro o ceramica?
4) La tovaglia di carta bianca semilucida a grandezza del tavolo. Fa tanto sciatto. Meglio le tovagliette americane, anche di carta.
5) il cameriere totalmente impersonale, senza un minimo slancio di partecipazione. Chiedeva le ordinazioni e portava i piatti senza muovere un muscolo, solo con un sorriso abbozzato, sempre uguale. Gli parlavo in francese e lui rispondeva in inglese. Boh…
6) Il locale totalmente impersonale, freddo, banale, senza calore. Una sorta di “non luogo”.
7) le portate assolutamente banali e scontate ma soprattutto senza una “matrice culturale”: dall’Oriente all’Occidente, con troppa disinvoltura (involtini primavera, spaghetti, zuppa giapponese, veg burger, per citarne alcuni). Se vado al ristorante  voglio, insieme ai piatti, assaporare atmosfera, calore, distinzione, passione. Non vado a sfamarmi dove posso farlo a casa mia.
Il piatto délices des sept mers, l’unico che ho trovato originale.  Gli altri piatti potevano essere realizzati a casa da una cuoca di media bravura.
Perfino da me che non sono affatto una cuoca e tantomeno di media bravura ma molto al di sotto.
Al ristorante non mi aspetto piatti che potrei cucinarmi io a casa.
8) prezzi: l’unico aspetto positivo del locale.

Insomma, meglio ascoltare il sax di Stan Getz in Dreams e dimenticare Parigi.


Auguri all’ America e non solo…


L’anno scorso, il  giorno dell’Independence day  ero a New York. La città trasudava patriottismo  – in certi casi spinto agli eccessi da rasentare il ridicolo e il pacchiano – da tutte  le angolature.
Ho vissuto tre Independence day negli States e l’esperienza è stata sempre molto interessante, se non altro dal punto di vista sociologico (è una mia deformazione….).
L’anno scorso a New York,  il corso che frequentavo era chiuso per l’importante celebrazione e io mi sono divertita come una matta ad andare a caccia di immagini curiose, simpatiche, eccessive.
Comunque, al di là di tutto, AUGURI AMERICA!!

Ma il 4 luglio ricorre anche il primo anniversario di questo blog che, proprio perché è nato in America,  merita particolare attenzione nel Giorno più importante per gli States.
Grazie a questo blog, creato per ridurre quel senso di solitudine per la lunga assenza da casa e in un posto lontano, ho conosciuto persone interessanti e particolari che hanno dissolto – almeno in parte –  attraverso i loro commenti, le loro mail, le loro tracce, la loro costante presenza, quel senso di isolamento che spesso mi assediava, nonostante vivessi in una delle città che più amo.

Ma un augurio speciale è per la mia cara amica Moky, milanese emigrata da 20 anni negli States, che da pochi giorni è diventata americana (e a novembre potrà votare per Barack Obama!).
Moky  non solo è vegan ma è anche una persona generosa, altruista, affettuosa, aperta e intelligente. Ed è una SuperMamma di 4 bellissimi bambini/ragazzini.
A distanza – grazie a Skype –  mi ha aiutato in diverse situazioni di disagio (in particolare, alle Hawaii avevo problemi con le tubature e mi ha aiutato a gestire la padrona di casa…), mi è stata vicina telefonandomi spesso mentre ero a New York, mi ha confortata durante l’Uragano Irene (ero terrorizzata), mi ha  risolto un paio di problemi di spedizioni via Internet con aziende a stelle e strisce che non accettavano la carta di credito italiana, mi ha inviato diversi pacchi pieni di leccornie vegan oltre alla teglia per i donuts grandi e piccoli.
Moky, inoltre, ha tradotto in tempo record (un giorno) il testo (lungo) del sito del mio B&B essendo l’inglese ormai la sua madrelingua, con un entusiasmo per questa mia nuova avventura che mi commuove ogni volta che lo manifesta.
E’ veramente raro trovare una persona che conosca il significato dell’Amicizia. Grazie Moky!
 
I libri della foto li ho letti diversi anni fa e li vorrei rileggere. Ecco perché li ho esposti.

1) AMERICA PERDUTA – In viaggio attraverso gli USA  – di Bill Bryson
TRADUZIONE  di Amedeo Poggi e Annamaria Melania Galliazzo

2) IL DOTTOR SAX – BIG SUR * – di Jack Kerouac
TRADUZIONE  di  Magda De Cristofaro e Bruno Oddera

* Big Sur è uno dei posti più incantevoli che abbia visitato. Si trova al centro della California, a picco sul Pacifico.

Sto ascoltando  John Coltrane in Just Friends.


Un altro bell’incontro e una passata telepatia

E’ un periodo di concentrazione monotematica che mi calamita al solito pensiero fisso nonostante gli sforzi ad affrancarmi e abbandonarmi ad altro..
Il pensiero è  sempre lo stesso, quello rivolto all’organizzazione del B&B che, a breve, dovrebbe avviarsi.
Il condizionale è necessario in quanto sono ancora nella fase burocratica e nelle lungaggini amministrative che sembra non finiscano mai.
Non riesco a seguire con costanza il mio blog perché mi manca  la leggerezza necessaria e il pensiero fisso non mi concede digressioni.
E, purtroppo, faccio fatica anche a commentare i blog degli amici che spero non me ne vogliano. Ma non durerà a lungo questa prigionia mentale.

Ma non posso non raccontare  dell’incontro di oggi con Alessandra. Cercherò di forzare il pensiero  senza  distrarmi, perché lei  lo merita.
Ci siamo incontrate al Parco Lambro per la pausa pranzo, con le nostre schiscette (per i non milanesi, la schiscetta è il pranzo in un contenitore. Qui l’amica Libera  – pur non essendo milanese ma triestina-  ne rivela l’origine più attendibile del termine) e, comodamente sedute al tavolo della nuova area pic nic  – con Joy che gironzolava intorno – abbiamo parlato come se avessimo interrotto la conversazione de visu il giorno prima.

Alessandra ha due bellissimi occhi e uno sguardo intenso, il suo eloquio è pacato e dolce e rivela uno stile discreto e, oserei dire, un po’ british al punto che ho avuto il timore di averla travolta con i miei racconti.

A volte sono un fiume in piena e non mi rendo conto di soffocare l’interlocutore. Spero di non essermi giocata le possibilità future di reincontrare Alessandra.

La passata telepatia del titolo è riferita a una circostanza curiosa che ci ha viste, diciamo, ignare protagoniste.

Ci trovavamo, infatti, lo stesso giorno (senza saperlo  e senza conoscerci) a Newport, in Rhode Island.
Newport non è come New York  -città in cui non è così difficile incontrare persone che si conoscono –  ma è una città  understated, un po’ defilata, poco conosciuta,  se non dagli amanti della vela.
Mi ritrovai nel suo blog cercando informazioni proprio su Newport e da lì mi accorsi, pochi giorni dopo essere stata in Rhode Island, che  una ragazza di Imperia (città a me molto familiare e gemellata proprio con Newport) si trovava lì lo stesso giorno.
Questo il suo post su Newport e questo il mio (osservare le date dei post).
Anche questo, al pari con le altre coincidenze descritte nell’incontro con Silvia e Sara, ha dell’incredibile.

Io, da freudiana pura, penso che nulla sia casuale e che l’intrecciarsi di molte storie non sia altro che espressione di un segnale che non deve essere sottovalutato.

Purtroppo non avevamo la macchina fotografica….

Dedico ad Alessandra una struggente ed elegante Sade in By your side.