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Viaggio a Pitcairn (quinta parte)

Tempo di lettura: 9 minuti

Ci svegliamo presto, io ancora incredula di trovarmi a Pitcairn ma la vista dell’oceano dalla grande finestra della stanza è come un risveglio dal sogno, un ritorno alla realtà. Sì, sono proprio lì.

Il bagno è uno solo per cinque persone ma riusciamo a utilizzarlo per primi senza attese per gli altri che hanno orari diversi.

La colazione è pronta, si sente profumo di caffè e pane tostato. É Mike che si occupa di noi perché Brenda è impegnata al computer. Lei è la poliziotta dell’isola e svolge anche mansioni amministrative. É lei che ci ha timbrato i passaporti.

Brenda mentre timbra i nostri passaporti
Questi timbri racchiudono un desiderio realizzato
I prodotti per la colazione, al centro del tavolo

Gli alimenti per la colazione, tutti vegani come da nostra richiesta, sono al centro del grande tavolo dove siamo seduti. Provengono dalla Nuova Zelanda e uno di questi, il Marmite, l’avevo già provato in occasione di un viaggio a Auckland. Quella crema tra il salato e l’acidulo, allora, la trovai disgustosa e immangiabile ma dopo anni, su quel tavolo, a Pitcairn, forzando il palato, l’ho adorata tanto da ripromettermi, una volta rientrata in Italia, di cercarla non potendone più fare a meno. Il mistero e il sogno hanno agito per me. E ho consolidato l’idea che i gusti vanno istradati se questo serve a scegliere alimenti giusti e puliti e non frutto di sofferenza e crudeltà.

Al tavolo oltre a noi c’è Andreas con cui scambiamo informazioni sui programmi della giornata. Siamo tre buone bocche e Mike si dà un gran daffare per tostare il pane e servire il caffè. Non fa in tempo a portare quattro fette di pane che già sono sparite, spalmate di leccornie varie tra cui il Biscoff che non conoscevo e che, dagli ingredienti, è una golosissima bomba calorica, da non ricomprare. Diamo l’impressione di essere tre naufraghi affamati più che viaggiatori giunti fin laggiù in cerca di emozionanti avventure.

Mi offro di aiutare Mike a sparecchiare e lavare i piatti. Mi piace immergermi nell’atmosfera casalinga.

Il programma della giornata sarà intenso, a stomaco pieno lo affronteremo meglio. Ci dirigiamo a piedi verso la Saint Paul’s pool, una pittoresca piscina naturale soggetta alla marea, incastonata tra le rocce costiere nella parte orientale dell’isola. É l’unico punto di Pitcairn dove si può fare il bagno quando la marea non è violenta. Non ci sono spiagge.

Saint Paul’s pool

La vista è un incanto, il rumore dell’oceano è carezzevole, ammirato dalla terra ferma… Staremmo lì ore a contemplare lo spettacolo ma vogliamo andare al Museo. Ci arriviamo dopo una faticosa camminata. Le distanze sono brevi ma il dislivello è notevole.

Ritratti di John Adams e di Thursday October, figlio di Fletcher Christian

La bibbia del Bounty

Il Museo è molto piccolo. Si tratta di due stanze dove sono raccolti alcuni oggetti del Bounty oltre a documenti che richiamano la storia degli ammutinati. Il reperto più significativo del museo è la bibbia che John Adams, l’ultimo sopravvissuto degli ammutinati, utilizzò per insegnare a leggere e scrivere e, ahimè, indottrinare, le donne e i bambini sopravvissutə ai conflitti tra tahitianə e marinai inglesi. Infatti, la vita degli ammutinati fu caratterizzata negli anni successivi all’insediamento sull’isola, da omicidi e violenze.

Fletcher fu probabilmente uno dei primi ammutinati a morire, ucciso durante una ribellione dei maschi tahitiani. Nella stessa ribellione morirono altri quattro ammutinati, mentre tutti e sei i tahitiani furono uccisi per rappresaglia dagli altri tre ammutinati oppure dalle vedove dei marinai uccisi. I sopravvissuti si presero le mogli dei loro compagni morti. Alla rivolta seguì qualche anno di pace, fino a quando uno degli ammutinati riuscì a distillare una bevanda alcolica dalle piante dell’isola. I sopravvissuti, spesso ubriachi, cominciarono ad essere sempre più violenti, anche nei confronti delle loro mogli, che a loro volta si rivoltarono. Nel frattempo l’isola si popolava di decine di bambini. Gli ammutinati intanto, sempre per questioni di alcol o di donne, continuarono ad uccidersi tra di loro, fino a che rimase vivo soltanto uno di loro, John Adams. A quel punto la popolazione dell’isola contava un uomo, 8 donne e diverse decine di bambini. In pochi anni, su 15 maschi originariamente sbarcati a Pitcairn, soltanto due erano morti per cause naturali.” Fonte: https://www.ilpost.it/2013/06/08/la-storia-del-bounty/

Tornati a casa, Brenda ci propone di visitare Down Rope, una ripida scogliera situata sulla costa meridionale. La discesa dalla cima della scogliera è agghiacciante tanto che noi, a metà discesa decidiamo di rinunciare. Una frattura sarebbe una complicazione seria e ingestibile. Meglio non rischiare. Alla base ci sono, sulle rocce, dei petroglifi polinesiani lasciati dagli antichi abitanti che abbandonarono l’isola.

Brenda ci ha impressionato perché, col machete e a piedi nudi, ci faceva strada, tagliando la vegetazione lungo il ripido precipizio, con estrema naturalezza.

Brenda taglia col machete la vegetazione

Con noi, a supporto della piccola comitiva – siamo in otto – c’è Gavin, il poliziotto governativo dell’isola. Viene dalla Nuova Zelanda e, dopo alcuni mesi di permanenza a Pitcairn, tornerà nel suo paese e sarà sostituito da un collega disponibile a questa esperienza.

Con Gavin, il poliziotto neozelandese

Siamo stanchi e provati, ci vuole una bella birra fresca e buona compagnia per allontanare la stanchezza. Ci dirigiamo al Pub, un locale molto spartano, con un grande e unico tavolo in mezzo alla stanza dove gli avventori trovano posto creando un’atmosfera di condivisione. La prima impressione è di disordine e scarsa pulizia. Le tipiche tovagliette rettangolari da pub, di spugna, disposte intorno al tavolo come segnaposto, sono talmente rigide da sembrare inamidate tanto sono intrise di sporcizia al punto che mi viene da pensare non siano mai state lavate. Sono contro ogni spreco e un uso assiduo di acqua ed energia, in un’isola così piccola e sperduta, sarebbe dissennato. La soluzione? Semplicemente eliminare le tovagliette rinunciando al segno distintivo tipico del pub inglese. Sopra il piccolo banco da bar campeggia uno schermo gigantesco, spento. Pawl, il gestore, è un omone grande e grosso, è un eccentrico personaggio che indossa vistose collane, file di orecchini su entrambe le orecchie, numerosi bracciali. Sul capo ha un cappello pieno di teschi in metallo, teschi che compaiono ovunque nel locale. Ci sono tanti oggetti sulle mensole, molto polverosi. Nell’angolo di una mensola spicca una scatolina trasparente che contiene un pezzo di dito immerso in un liquido. Pawl ci spiega di aver perso la falange distale del pollice della mano sinistra. Con disinvoltura prende in mano la scatolina trasparente e la avvicina al moncone ricostruendo l’immagine del dito. É un tipo originale, sopra le righe, e quel gesto potrebbe sembrare macabro in altri contesti ma non in quel luogo e in quella situazione con quel personaggio. Siamo i primi clienti e, appena ci vede sulla porta, accende il video che trasmette musica anni ’70 – ’80, di buona qualità.

Pawl, il gestore del pub

Ordiniamo due birre – da bere rigorosamente dalla bottiglia… – e ci sediamo al tavolone. Con le birre ci porta un pennarello nero e ci invita a scrivere sul muro o sulle bandiere quello che vogliamo. Accetto subito il simpatico invito e mi avvicino alla parete dove sono affisse varie bandiere. Mancano la bandiera italiana e quella di Pitcairn e con il pennarello scrivo i nostri nomi e la data sulla Union Jack, la bandiera britannica. Avrei voluto narrare la mia esplosione di felicità ma non trovavo le parole e non avevo spazio nè tempo sufficienti.

Le nostre firme e la data al pub di Pawl
Una parete del pub

Arrivano altri avventori che si siedono intorno al tavolo. Tre o quattro locali e un paio di viaggiatori con cui abbiamo condiviso il viaggio sulla nave mercantile. C’è anche Miriana, una simpatica ragazza italiana, arrivata a Pitcairn a febbraio con Lonie, la sua compagna londinese. Dopo un periodo vissuto a Londra hanno deciso di stabilirsi definitivamente sull’isola. Mi stupisce sapere che due giovani ragazze abbiano scelto un luogo non solo lontano da tutto ma anche apparentemente poco attrattivo. Non c’è nulla che possa calamitare delle giovani, vissute nel cuore dell’occidente con ogni tipo di richiamo e stimoli. Qui è la natura che la fa da padrona. Miriana mi ha svelato che è il mistero dell’isolamento ad averla attratta e io ho anche percepito in quella piccola comunità un forte senso di collettività, complicità e condivisione, elementi estranei a un mondo consumistico, logorante e competitivo come quello occidentale. E quel modo di vivere e di interpretare la vita è di gran lunga più ricco di valori e fascino rispetto a un mondo dove è difficile distinguere i bisogni dai desideri e dove imperano confusione, ingannevoli convincimenti e falsi miti. Per vivere da residente e lavorare – facendo lavori utili alla comunità – è necessario avere dei permessi che si ottengono direttamente dall’ufficio del governatore.

Noi con Pawl, al pub
Miriana al pub
Intorno al tavolo del pub
Intorno al tavolo del pub: di spalle Lonie, in piedi Miriana, di fronte Seb e, accanto, Heidi

La giornata è stata intensa, è ora di tornare a casa per la cena. Abbiamo fame e troviamo una bella sorpresa.

A cena, da Brenda e Mike. Di spalle, Mike, a sinistra Andreas, accanto si intravvede Brenda, di fronte Seb

La sorpresa è un piatto di verdure con il frutto dell’albero del pane, l’obiettivo della missione del Bounty. Sono curiosa di assaggiarlo, sono anni che ne sento parlare e non vedo l’ora di vederlo nel piatto. Il gusto è neutro, la consistenza ricorda quella della zucca. Mi piace e so che sarà l’unica volta che lo assaggerò.

Il frutto dell’albero del pane con verdure miste (carote, piselli, cipolle
e mais)

Avrei ancora tanto da narrare ma mi fermo qui per non dilungarmi troppo. Anche raccontare questo meraviglioso viaggio assorbe energia, alimentando nostalgia e ricordi. Tornerò presto.

5. Continua


Viaggio a Pitcairn, il mio ikigai, il sogno avverato (prima parte)

Tempo di lettura: 7 minuti

Qui l’intervista sul nostro viaggio da parte di Giovy, una blogger amante dei viaggi conosciuta sul web qualche anno fa, al tempo in cui cercavo notizie su Pitcairn, e il suo blog ne parlava. Trovate Giovy anche su IG https://www.instagram.com/giovyfh/

Immagine dal sito http://www.japan.go.jp
I timbri sul passaporto

Ikigai è una parola giapponese che, scomposta, significa iki=vita e gai= valore; in altre parole vuol dire “dare un senso, un obiettivo, un valore alla propria vita”. Si tratta di una filosofia che aiuta a trovare il proprio scopo nella vita, il proprio benessere.

Ognuno di noi ha il proprio ikigai nonché una valida ragione per essere felice e, aggiungo, per alzarsi di buon umore al mattino. Il mio ikigai è sempre stato alimentato principalmente dalla curiosità verso la diversità e l’unicità nel mondo, in tutte le sue declinazioni. E viaggiare, per me, rappresenta una filosofia che coincide con lo scopo della vita, con il mio ikigai, perché nei viaggi ottengo tutte le risposte alla curiosità che i cinque sensi evocano. Sono attratta dalle lingue, dalle culture, dalla natura, dalle storie personali, dai profumi, dai colori e dai sapori, purché cruelty free. E la curiosità si autoalimenta, i sensi lottano tra loro per avere risposte e sensazioni, le domande si rincorrono, si dileguano e poi ritornano in un anarchico continuum.

Ma non vorrei divagare e, come annunciato dal titolo di questo articolo, l’essenza del mio ikigai l’ho concretizzata nel viaggio dei viaggi, nel sogno dei sogni che mi culla da una ventina d’anni. Qualche mese fa ne parlavo qui https://wordpress.com/post/pensierinomadi.wordpress.com/4321 e 11 anni fa ne parlavo qui https://wordpress.com/post/pensierinomadi.wordpress.com/3404

Un affollamento di emozioni, paure, furia emotiva, eccitazione non mi hanno dato tregua.

Sì, sono appena tornata da Pitcairn, da questo viaggio multisensoriale che ho realizzato con mio marito Seb dopo anni di tentativi, vissuti tra delusioni ed euforia.

Non è stato facile organizzare questo viaggio non solo perché è in un luogo remotissimo e l’aspetto burocratico è stato tutt’altro che secondario ma anche perché non dispone né di un aeroporto né di un porto e, quindi, si può raggiungere solo in tre modi: 1) con un’imbarcazione privata o un charter, 2) con una nave mercantile o – orrore – 3) con una nave da crociera, di quei condomìni galleggianti adatti a chi non ama le sorprese e non vuole uscire da ciò che gli/le è familiare, protettivo e conosciuto, a chi affida agli esperti anche i propri momenti di rilassamento e piacere. Senza contare il danno ambientale e visivo che questi condomìni galleggianti provocano (horribile visu…) In tutti e tre i casi, non essendoci un porto, tutte le imbarcazioni devono gettare l’ancora al largo e i passeggeri possono raggiungere l’isola facendosi venire a prendere dalla barca (la long boat) degli isolani, previ accordi con l’ufficio del turismo di Pitcairn.

La long boat che viene a prenderci alla nave mercantile MV Silver Supporter. A bordo della long boat ci sono gli isolani che ospiteranno noi sette turisti
La nave mercantile MV Silver Supporter al largo, mentre ci allontaniamo sulla long boat

La scorsa estate, facendo volare i pensieri e il vecchio desiderio, mio marito e io ci siamo messi di buzzo buono con l’ irriducibile  intenzione di raggiungere l’obiettivo. “Stavolta si fa sul serio” ci siamo detti.

Il sito ufficiale del turismo di Pitcairn https://www.visitpitcairn.pn/  dava tutte le informazioni necessarie per raggiungere l’isola. Abbiamo escluso a priori di affidarci a un’agenzia turistica perché non volevamo farci ingabbiare dai loro programmi di gruppo. Qualche agenzia, interpellata al solo scopo di avere un’idea di massima, proponeva una crociera (orrore!) con sosta di poche ore (senza alcuna certezza di sbarcare, visto l’alto numero dei passeggeri) a Pitcairn durante la rotta di navigazione nel Pacifico.

Abbiamo sempre organizzato i nostri viaggi in piena autonomia e, quindi, con l’entusiasmo di sempre, ci siamo attivati per far coincidere tutte le necessità mettendo in conto un impegno non facile. Avendo escluso le crociere, i charter e, non possedendo mezzi propri, l’isola l’abbiamo raggiunta con la nave mercantile MV Silver Supporter che ha una capienza massima di 12 passeggeri oltre l’equipaggio. Nel viaggio di andata eravamo in sette passeggeri di varie nazionalità (USA, UK, Austria, Australia, NZ, Italia) e dieci passeggeri al ritorno.

A Pitcairn abbiamo soggiornato presso una delle famiglie disponibili a ospitare i turisti https://www.visitpitcairn.pn/where-to-stay per minimo 4 giorni (la nave parte da Mangareva solo il martedì e ritorna a Mangareva la domenica successiva) o, a scelta, anche per più tempo tenendo sempre conto la programmazione dei viaggi della nave che alcune volte all’anno va in Nuova Zelanda per caricare le merci necessarie agli abitanti di Pitcairn.

A settembre ho inviato il form di richiesta (si trova sul sito del turismo che ho indicato sopra) specificando, tra le date disponibili, quelle che ci interessavano. Con lo stesso form si domanda il visto provvisorio, necessario perché l’ufficio del turismo opera una certa selezione degli aspiranti visitatori.

Non è stato molto semplice far coincidere i voli da Milano a Tahiti, e da Tahiti a Mangareva, nell’arcipelago delle isole Gambier, da dove parte la nave per Pitcairn ma ce l’abbiamo fatta! Abbiamo specificato di essere vegani e richiesto che sia i pasti in nave (circa 40 ore di navigazione) sia i pasti presso la famiglia che avevamo scelto (da Brenda e Mike https://www.visitpitcairn.pn/accommodation/pommy-ridge) dovevano essere a base vegetale. E così è stato.

Heather, la coordinatrice dell’Ufficio turistico ha sottolineato che sarebbe stata obbligatoria, anzi propedeutica alla conferma delle prenotazioni e al rilascio dei visti, l’assicurazione sanitaria con specifica clausola per la “medical evacuation“.

L’isola è lontana da tutto, l’ospedale attrezzato – ottimo ospedale – più vicino è a Papeete (Tahiti). Un’imbarcazione che parte da Mangareva impiega due giorni e mezzo di navigazione solo per arrivare a Pitcairn e altrettanti per tornare; a questo si deve aggiungere il trasporto aereo da Mangareva a Tahiti (4 ore di volo); la distanza non consente neanche un trasporto in elicottero perché non avrebbe sufficiente autonomia. Le autorità di Pitcairn, quindi, non si prendono la responsabilità di una eventuale necessità di trasporto urgente per motivi sanitari dove l’urgenza è determinata dalla necessità del paziente, non dalla rapidità delle cure. Senza contare gli enormi costi da sostenere.

In considerazione dei costi, infatti, la richiesta non è di una semplice assicurazione sanitaria ma di una polizza assicurativa che si prenda carico del trasporto dell’infortunato/a.  

La ricerca più complicata e febbrile è stata proprio quella di trovare un’assicurazione che garantisse la “medical evacuation” in caso di malattia o infortunio durante la permanenza sull’isola.

Abbiamo consultato e chiesto preventivi a tutte le maggiori compagnie di assicurazione ma nessuna garantiva la “medical evacuation” perché il luogo era troppo remoto.

Solo l’American Express  ci ha salvati (a caro prezzo, ehm….).

Abbiamo comunicato i dati della polizza a Heather, e abbiamo avuto conferma delle prenotazioni pagando un’unica fattura comprendente i visti, il passaggio sulla nave mercantile Silver Supporter e il soggiorno.

I quattro giorni sull’isola sono trascorsi, fortunatamente, senza problemi di salute ma ancora oggi mi chiedo, escludendo i miracoli, come si possa trasportare all’ospedale di Papeete in tempi rapidi una persona che necessita di cure urgenti. Chissà…

A Pitcairn c’è un medico che si avvicenda per qualche mese dall’Australia o dalla Nuova Zelanda, pagato da re Carlo. E c’è un’infermiera del posto. L’ambulatorio è ben attrezzato, anche con tre letti di degenza,  ma non abbastanza per casi gravi o molto gravi o per interventi chirurgici urgenti visto che non c’è l’anestesista.

  1. Continua…

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