Tempus fugit

Da un verso delle Georgiche di Virgilio: «Sed fugit interea fugit irreparabile tempus» (Trad: Ma intanto il tempo fugge, fugge irreparabilmente).

Da quando ho smesso di lavorare - da dipendente prima e in proprio poi – mi sono sentita smarrita e disorientata. Le mie giornate, non più riempite dal lavoro, svolto con impegno e passione, mi sono sembrate vuote di contenuti. Il mio lavoro era ricco di relazioni, di ricerca, di studio, di fatica, di soddisfazioni, di successi ma anche di insuccessi e frustrazioni. Insomma era un’inesauribile fonte di confronto dialettico e riflessioni. Per tanti anni.

La forzata – anche un po’ desiderata, aggiungerei – inattività mi ha sollecitato l’urgenza di guardare indietro negli anni e verificare, ahimè, che il contatore del tempo gira molto velocemente. Prima non mi era mai capitato di “guardare l’orologio” tanto erano occupate le mie giornate – anche quelle di svago – e questa necessità di controllo non era mai emersa. Impegnavo parte delle giornate spesso sprecando energie con persone con le quali ero obbligata a condividere il tempo e con cui non avevo nulla in comune, nulla da spartire, salvo l’obbligo di subirne la presenza. Diciamo che questa forzata tolleranza era ben equilibrata da momenti di soddisfazione e gratificazioni.

Ora sento il bisogno di riempire ogni spazio temporale senza lasciare vuoti ma di riempirlo in modo selettivo operando scelte rigorose e senza buttare energie e tempo perché ora sono più difficile e più esigente.

Come riempio ora il mio tempo? Con la persona che amo e che da tanti anni mi è vicino e con cui condivido impegno civile (attivismo per gli animali e a sostegno dei popoli oppressi), affetti, amicizie, frequentazioni interessanti, viaggi, tante risate, musica, cinema, lunghe passeggiate, buone letture, ozio creativo.

A volte mi viene spontaneo fare sempre tutto velocemente, quasi freneticamente, come se  il tempo che ho non bastasse a donarmi ancora tante esperienze ed emozioni che desidero vivere ma poi rallento e penso, con stupore, a tutto quello che ho vissuto e provato e mi viene naturale evocare la frase di Pablo Neruda (che dà il titolo al suo libro) “Confesso che ho vissuto”.

Non potevo, mentre scrivevo, che ascoltare Dave Matthew Band in ” How time slips away” (tr. “Strano come il tempo scivoli via”)

https://www.youtube.com/watch?v=EM6Vc1_i-YM


Sogno o realtà?

L’isola Pitcairn (immagine dal web)

Quando, una ventina di anni fa, vidi per la prima volta il film Gli ammutinati del Bounty – film del 1962, con Marlon Brando, regia di Lewis Milestone – rimasi letteralmente affascinata non solo per le vicende avventurose e burrascose (è il caso di dirlo) vissute per molti mesi da un gruppo di marinai della Marina Inglese, per il senso di infinito che evocava una traversata oceanica su un piccolo vascello ma anche per il desiderio fortissimo di raggiungere quell’angolo remoto, quel luogo disabitato, l’isola Pitcairn, una sorta di sfida. A Pitcairn si rifugiarono i rivoltosi per sfuggire alla cattura e all’impiccagione, inevitabile destino riservato agli infedeli e ai disertori.

Il film narrava una vicenda realmente accaduta nella seconda metà del diciottesimo secolo e suscitò in me l’impazienza e l’ardore di approfondire quella storia, i suoi personaggi e i luoghi descritti. Il fascino della trasgressione e dell’inadempienza fu come una febbre che non volevo curare. La mia natura è sempre stata incompatibile e resistente all’autoritarismo e anche all’autorità quando non ne condivido i principi, le modalità e gli obiettivi ancorchè riconosciuti dallo status quo. E lo dimostra la mia carriera professionale che, nonostante i titoli, lo studio, l’impegno e la serietà spesi, è sempre rimasta ferma al palo fino alla decisione, per alcuni scellerata ma non per me, di rassegnare le dimissioni e realizzare altro.

Che cosa mi attraeva tanto di quel luogo e di quella storia? In fondo avevo visitato più volte luoghi bellissimi e lontanissimi nel mondo, dalle culture affascinanti, diverse dalla nostra, ricche di storia e di misteri. Quella vicenda aveva qualcosa in più perché coniugava l’inaccessibilità del luogo e la ribellione all’autoritarismo, al potere dispotico, all’intolleranza, alla tirannide, l’anelito alla libertà. Da allora, quell’ostinato desiderio, ormai saldato nelle retrovie dell’anima, vacillava solo quando, cercando di concretizzare l’organizzazione del viaggio, mi rendevo conto che oggettive difficoltà ne ostacolavano la realizzazione. Difficoltà logistiche, economiche, burocratiche, sanitarie in un’incessante altalena di euforia e delusioni. Per me viaggiare è una filosofia di vita, non è solo mero svago o un temporaneo affrancarsi dalla routine. Viaggiare travolge i pensieri, li accumula e li dipana, li dissolve e ne rincorre altri in un continuo eterno ritorno. Viaggiare è incontrare, scambiare, confrontarsi, liberarsi. Viaggiare aguzza la creatività o la risveglia se è assopita. Viaggiare non è uno stile di vita o di consumo ma assume un potere rivoluzionario. Il mio viaggio a Pitcairn – tra i luoghi più remoti e con meno abitanti al mondo, solo 49 persone – che finalmente sono riuscita a realizzare con mio marito Seb per l’anno prossimo, sarà spartano. Ciò non significa che sarà raffazzonato, impreciso, pressapochista ma essenziale, basico, sobrio. E sarà ricco di incontri.

Oggi l’isola Pitcairn è un po’ più accessibile anche se è fuori dalle rotte turistiche e ancora oggi non dispone né di attracco per le imbarcazioni né di aeroporto. È sempre un’impresa colossale ma meno difficile da realizzare. Ci arriveremo con una nave cargo… Non vedo l’ora di raggiungere quella piccolissima isola abitata dai discendenti degli ammutinati e delle donne tahitiane che li seguirono. E non vedo l’ora di conoscere Brenda e Mike, che ci ospiteranno nella loro casa per alcuni giorni.

La storia dell’ammutinamento del Bounty qui o qui.

Immagine dal web

Ascoltando Across the Universe dei Beatles


Intraprendenza, ottimismo, generosità

Sono le caratteristiche che aveva Lidia , mia madre (ne parlavo qui), avvertibili anche da chi la incontrava per la prima volta. Si coglievano già dallo sguardo, dalla vigorosa stretta di mano, dal sorriso dai denti bianchissimi e bellissimi. Voglio ricordarla così, a distanza di 10 anni dalla sua morte, da quel 22 marzo 2013.

Non è stato un rapporto facile, anzi, è stato un rapporto molto intricato, a volte oscuro e spesso inespresso. La sua intraprendenza, lodevole quando era espressione di grinta, ingegno ed efficienza per trovare soluzioni nelle cose pratiche, talvolta approdava nella mia vita in interventismi e intrusioni, costringendomi a pesanti rinunce. A 13 anni sognavo il teatro – di diventare attrice, intendo – tanto che insistetti affinché mi portasse a fare un provino. Abitavamo a Milano e mi portò al Teatro dell’Arte dove superai il provino ma la Direttrice mi disse che avrei dovuto prima finire le scuole superiori e solo allora se ne poteva riparlare. Sono certa, certissima, che fu mia madre a suggerirle quella raccomandazione. E tutto finì lì anche perché mia madre, dopo la separazione – pochi mesi dopo il provino – si trasferì da Milano a Verona.

Lasciare Milano per trasferirci in un’anonima provincia, un luogo sconosciuto, senza alcun legame e senza conoscere nessuno, fu una cura (palliativa) solo per mia madre, vittima di un abbandono traumatico che la indusse a lasciare la città dove aveva sofferto. Per me fu un grande trauma e ancora oggi, a distanza di anni, ricordare Verona è sconvolgente. Fu devastante, infatti, a 14 anni, abbandonare la mia città, le mie amicizie, nonna e zia paterne, i luoghi che amavo, la scuola superiore in cui mi ero iscritta e ritrovarmi catapultata in luoghi ignoti e ostili. Sì, ostili, perché Verona era una città chiusa, poco accogliente dove ero “la milanese”.

I paletti che mise mia madre ai miei desideri e progetti di vita furono altri ma non voglio descriverli per non dilungarmi. Dico solo che la mia vita avrebbe avuto, inevitabilmente, altri effetti, altre conseguenze, altri risultati.

Le ho perdonato tutto.

Lidia era una donna generosa, estremamente generosa. Non ho conosciuto nessuna persona, nel corso del tempo, generosa quanto lei. Forse mia zia Marisa, sua sorella. Era generosa nel dare quello che aveva, disposta alla rinuncia, non solo con me, figlia, ma anche con gli altri. Dava tempo, denaro, cose, energia, parole. Non era attaccata alle cose, alla “roba”, non era schiava del possesso, non era vittima di un millantato romanticismo evocato solo per tenere tutto per sè.

Ecco, mi piace ricordare Lidia per la sua grande generosità e per il suo inattaccabile ottimismo. A volte mi manca per queste sue caratteristiche e avrei voluto averla accanto nei miei periodi bui, ormai inoffensiva perché non più interventista grazie alla mia capacità di impormi e ribellarmi, affinata nel corso degli anni.

Cara Mamma Lidia, ti dedico la poesia di Victor Hugo, augurandomi che possa arrivarti, ovunque tu sia.

La madre

La madre è un angelo che ci guarda
che ci insegna ad amare!
Ella riscalda le nostre dita, il nostro capo
fra le sue ginocchia, la nostra anima
nel suo cuore: ci dà il suo latte quando
siamo piccini, il suo pane quando
siamo grandi e la sua vita sempre

Victor Hugo


Le tradizioni e le festività

La mia tavola di natale
Particolare

Riflessioni, nel periodo delle festività, ascoltando Aretha Franklin in “Respect

Penso alla forzatura delle celebrazioni e a certe distorsioni in nome di tradizioni da onorare e all’obbligo, da parte della massa omologata, di sedersi intorno a un tavolo a consumare pezzi di animali morti: pesci alla vigilia di natale, carni il giorno di natale, cotechino a capodanno. In nome della tradizione. Folle di persone gaudenti, uniformate e insaziabili che triturano, masticano, sminuzzano, con ingordigia e rumoreggiando……. Per mettersi, probabilmente, a dieta e/o iscriversi in palestra dopo la befana.

Il cibo è un aggregante, è vero. E’ uno dei principali mediatori e facilitatori nella relazione con gli altri. Ma lo è qualsiasi cibo, non solo quello animale. E’ il sedersi intorno a un tavolo che favorisce la relazione, lo scambio, il racconto, la condivisione, non CHI c’è nel piatto. E, al di là di tutto, è il legame relazionale che dovrebbe prevalere sul cibo, non il contrario. Se, invece, è il cibo a imporsi – in nome della tradizione – la relazione è debole, insignificante, inesistente.

Sono sempre stata refrattaria a ciò che è consuetudine e conformismo non come atto di ribellione fine a sé stesso ma per quello spirito critico e quel distacco che mi hanno sempre animata e indotta a riflettere e dare un senso ai miei comportamenti. Mi piace molto stare sola ma amo anche stare con le persone con cui ho uno scambio dialettico, una discussione accesa, utile al mio arricchimento umano e culturale. E farlo davanti a preparazioni cruelty free è ancora meglio.

La tradizione non deve essere qualcosa di statico, rigido e inaccessibile ma impermanente e soggetta a cambiamenti, utili al proprio benessere e vantaggiosa per tutti. Tutto cambia, la permanenza è un’illusione e niente è eterno.

Dobbiamo rompere le righe. Se, per esempio, è tradizione far scoppiare i botti a capodanno per divertimento, dobbiamo cambiare direzione perché sono un danno per gli animali e per l’ambiente oltre che pericolosi e inquinanti.

Allo stesso modo possiamo cambiare la tradizione che “impone” di stare insieme attorno a un tavolo con animali nei piatti senza sentirci frustrati, delusi e traditori. Il segreto è l’inclusione non l’esclusione.


Buon anno 2023!

Non è stato, per me, un anno positivo sotto molti punti di vista (quest’anno la mia Joy è volata via – ne parlo qui) ma non voglio stare alla finestra a guardare, nell’indifferenza. Voglio guardare avanti e continuare a progettare, pensare, concretizzare. Rubo dal Sommo Poeta (primo Canto della seconda Cantica) :

“Per correr miglior acque alza le vele

omai la navicella del mio ingegno,

che lascia dietro a sé mar sì crudele;”

Auguro, a chi passa su queste pagine, un anno ricco di curiosità, di creatività, di nuovi incontri, di emozioni, di domande e di risposte, di riflessioni. E di giustizia.

Ma soprattutto un anno di RIBELLIONE e di PARTECIPAZIONE ATTIVA per un mondo più giusto e senza crudeltà per umani e non umani.


Antispecismo intersezionale

specismo (Treccani) = s. m. Convinzione secondo cui gli esseri umani sono superiori per status e valore agli altri animali e, pertanto, devono godere di maggiori diritti.

L’antispecsimo sostiene che la capacità di sentire ( provare sofferenza, piacere, esprimere volontà o interagire) non siano privilegi della specie umana.

L’antispecismo si collega ad altri movimenti di liberazione per annientare le dinamiche di potere sottolineando come tutte le discriminazioni sono simili e collegate, cioè intersezionali.

Fu la docente e attivista afroamericana Kimberlé Crenshaw a introdurre nel 1989 il concetto di intersezionalità come ipotesi sociologica, analizzando le condizioni delle donne nere in riferimento alle leggi antidiscriminatorie, al femminismo e alla politica anti-razzista. Affermò che le condizioni di oppressione venivano prese in esame come sezioni disgiunte tra loro senza, quindi, tenere conto del modo in cui queste sezioni potessero interagire tra loro.

L’intersezionalità è uno strumento di lotta attiva, un impegno contro ogni tipo di violenza, sopruso, sottomissione e discriminazione perché le discriminazioni sono simili e collegate e, spesso, istituzionalizzate e sistemiche.

L’intersezionalità teorizza e osserva come varie categorie, le sezioni, interagiscono a molti livelli, talvolta contemporaneamente: il genere, l’etnia, la disabilità, l’orientamento sessuale, la religione, l’età, la nazionalità, la specie. Di conseguenza e, direi, necessariamente, è opportuno pensare a ogni elemento legato agli altri per comprendere il suo significato sociale.

Tutti i pregiudizi basati sull’intolleranza (razzismo, xenofobia, omotransfobia, abilismo, sessismo, ageismo, specismo) non sono indipendenti bensì fortemente correlati creando un sistema oppressivo che evidenzia l’intersezione di molteplici forme di discriminazione.

Specularmente, la lotta contro le oppressioni deve essere altrettanto comprensiva, intersezionale, appunto.

Foto di Angela Davis dal web

A proposito di antispecismo non posso non citare Angela Davis, ben nota per le sue prospettive progressiste su razza, genere e classe (che le sono costate anni di galera) e meno nota per le sue opinioni sulla specie, assai lungimiranti.

Angela Davis alla Ventisettesima conferenza delle Donne afroamericane, all’università di Berkeley, in California, nel 2012 durante una conversazione con la scrittrice, filosofa e femminista Grace Lee Boggs, affermava (mia traduzione di uno stralcio della trascrizione della conversazione dal sito radioproject.org):

Nella foto (dal sito radioproject.org), Grace Lee Boggs (con il microfono) e Angela Davis durante la conversazione

Di solito non dico che sono vegana, ma la prospettiva si è evoluta… Penso che sia il momento giusto per parlarne perché fa parte di una più ampia prospettiva rivoluzionaria: possiamo non solo scoprire relazioni più compassionevoli con gli esseri umani, ma possiamo anche sviluppare relazioni compassionevoli con le altre creature con cui condividiamo questo pianeta e ciò significherebbe sfidare l’intera forma industriale capitalista di produzione alimentare.

La maggior parte delle persone non pensa al fatto che sta mangiando animali. Quando mangia una bistecca o il pollo, la maggior parte delle persone non pensa alla tremenda sofferenza che quegli animali sopportano semplicemente per diventare prodotti alimentari destinati agli esseri umani. Penso che la mancanza di un impegno critico nei confronti del cibo che mangiamo dimostri fino a che punto la forma merce è diventata il modo principale in cui percepiamo il mondo.

Ancora oggi non andiamo oltre ciò che Marx chiamava il valore di scambio dell’oggetto reale – non pensiamo alle relazioni che quell’oggetto incarna ed erano importanti per la produzione di quell’oggetto – sia che si tratti del nostro cibo o dei nostri vestiti o del nostro Ipad o tutti i materiali che usiamo per acquisire un’istruzione in un istituto come questo. Sarebbe davvero rivoluzionario sviluppare l’abitudine di immaginare le relazioni umane e non umane dietro tutti gli oggetti che costituiscono il nostro ambiente.

Lottare contro ogni forma di sfruttamento nella filiera della produzione del cibo implica il rendersi testimoni, e non più complici, della crudeltà verso gli animali. Esserne coscienti significa capire che ogni camion pieno di animali che incontriamo sulle strade non è in un viaggio di piacere ma porta questi animali al mattatoio dove saranno uccisi e macellati. La maggior parte della gente non si rende conto di mangiare degli animali nè si rende conto dell’enorme sofferenza che questo cibo contiene. È lo stesso problema cognitivo del razzismo e del sessismo.”

Sono convinta che questo approccio antispecista intersezionale possa gettare le basi per giungere insieme, umani e non umani, alla Liberazione Totale.

Voglio concludere con due bellissime canzoni dedicate ad Angela Davis

da John Lennon “Angela”

https://www.youtube.com/watch?v=8GLX64pmik8

dai Rolling Stones ” Sweet Black Angel”

https://www.youtube.com/watch?v=Cwekn8dDxCo


Un vuoto da riempire

sei un’estremista” – “anch’io amo gli animali” – “e se fossi su un’isola deserta? ” – “mangiare vegano costa” – “non ho tempo”

“e non pensi ai bambini che muoiono di fame, alle donne violentate, agli anziani ai disabili?”

“odio tutte le dittature ideologiche  che spesso mascherano altre problematiche” 

“ritengo che ognuno debba maturare le proprie scelte senza sentirsi dare del boia. “

“Sull’urgenza etica sono d’accordo ma non mi sembra il modo drastico e autoritario il modo migliore per affrontarla”

“non puoi criticare le scelte personali” – “non voglio scontrarmi con la famiglia” – “Le proteine dove le prendi?”

“Il leone mangia la gazzella” – “neghi le tradizioni” – “così si è sempre fatto

Sono solo alcuni degli stereotipi, frutto dell’ignoranza, della pigrizia mentale e della superficialità – spesso tutte queste cose insieme –  che i carnisti (*)/onnivori/specisti  ripetono – senza essere interrogati –  ai vegani quando se ne trovano uno davanti.  

Il carnista/onnivoro/specista scodinzola di gioia quando incontra un vegano perché, in tal modo, con la protervia che caratterizza chi è vittima dell’oscurantismo e non riflette, può pontificare, può snocciolare le sue banalità, i luoghi comuni triti e ritriti. Sono stanca di rispondere a chi ha il buio nella mente, buio che non gli consente di empatizzare, di non  capire o di fare uno sforzo, di non “sentire”.

Perché i carnisti/onnivori/specisti riducono tutto al cibo, manifestando  un limite culturale imbarazzante. L’antispecismo va ben oltre il piatto tant’è che il veganismo  – consumare cibi vegetali –  ne è solo una conseguenza. L’antispecista non finanzia la ricerca con sperimentazione animale, non finanzia i circhi con animali, i delfinari, i rettilari, gli zoo, gli acquari, non indossa pelle, lana, seta, non assume farmaci o prodotti cosmetici testati su animali. E non consuma cibi di origine animale.

Mi sforzo ancora una volta, forse l’ultima, a confutare alcune  affermazioni che ho elencato all’inizio dell’articolo. 

A chi afferma che  siamo estremisti vorrei mostrare i video che documentano  le umiliazioni e le torture che subiscono gli animali negli allevamenti intensivi prima e  nei mattatoi poi. Ma i carnisti si rifiutano di vedere i filmati con le investigazioni sotto copertura di tante associazioni come Animal Equality https://animalequality.it o Essere Animali https://www.essereanimali.org/

Altre affermazioni sono, a dir poco, sconcertanti come “odio tutte le dittature ideologiche che spesso mascherano altre problematiche”. Vorrei far notare che la dittatura è ben altra cosa e, forse, chi ha pronunciato quella scempiaggine non ne conosce il significato. Inoltre, i vegani, nel mondo, sono meno del 3% . Mi pare difficile pensare a una dittatura del 3%…… E l’altro 97% supinamente sopporta questa dittatura???? Ma il bello viene dopo con l’affermazione “mascherano altre problematiche”. Quali problematiche celerebbe un antispecista? Non posso rispondere perché la stolta affermazione non è stata argomentata.

I più teneri affermano: 

anch’io amo gli animali” 

e se fossi su un’isola deserta?”

Alla prima affermazione obietto che gli animali cui il carnista si riferisce sono cani e gatti senza riflettere che anche maiali, vitelli, agnelli, galline, conigli, tacchini, pesci  e tutto ciò che si mette nel piatto, sono esseri senzienti e desiderosi di vivere. Ma all’affermazione del carnista “amo gli animali” obietto anche che non è necessario amare gli animali per rispettarli.   Io, per esempio, non amo i serpenti e quando me ne sono trovato uno in Australia, nel bagno di un chiosco, me la sono data a gambe levate. Non per questo ho pensato che meritasse la morte.

Sull’isola deserta posso solo sorridere e scuotere il capo nell’udire una simile macchiettistica affermazione……. Quante possibilità ho di vivere da sola, su un’isola deserta?  Magari…..

A chi dice che penso solo agli animali mentre “ci sono intere popolazioni che muoiono di fame” obietto che il benaltrismo è un modo culturalmente modesto di argomentare e che, tra l’altro, non porta da nessuna parte. In ogni caso,  chi afferma tale ovvietà, facendo leva sul lato emotivo, non fa nulla per le popolazioni affamate. Se metà del mondo muore di fame la colpa non è dei vegani (ricordo, siamo meno del 3%….)  bensì del capitalismo e dello sfruttamento dei territori utilizzati per le piantagioni da dedicare all’alimentazione degli animali negli allevamenti intensivi ed estensivi anziché agli umani. 

Un’altra affermazione che mi fa sorridere è “il leone mangia la gazzella”. Come a dire che se il leone uccide un animale per mangiarselo anche un umano può cibarsi di un animale. Qui le obiezioni sono tante. Innanzitutto, noi non siamo leoni (taluni lo sono…..da tastiera), cuciniamo nelle nostre comode cucine e, soprattutto, non siamo esclusivamente carnivori, a differenza del leone che lo è.  A parte che il leone non alleva gazzelle in allevamenti intensivi ma ne rincorre una quando deve sfamare sé e/o i suoi cuccioli. Ma il leone e la gazzella sono sullo stesso piano, a differenza dell’uomo e dell’animale allevato. Non c’è la certezza che il leone catturi la gazzella se questa è velocissima e non si fa raggiungere. E non c’è certezza su chi avrà la meglio tra i due e su chi provocherà dolore. Se la gazzella si farà catturare morirà. Se, al contrario, riuscirà a scamparla, compirà un atto che farà soffrire il leone che non potrà nutrirsi. Quindi, il felino non può scegliere. Ecco la differenza: la scelta.

Noi umani possiamo scegliere con cosa alimentarci.  E  a chi afferma “mangiare animali è una scelta personale” obietto dicendo che una scelta si fa in due. E tra l’umano e l’animale solo uno può scegliere, l’altro subisce. E dove la scelta è asimmetrica c’è una volontà negata.

Jonathan Bazzi, scrittore milanese vegano, di cui consiglio la lettura dei suoi libri(**) afferma: “Di fronte alla scelta vegana gli onnivori si sentono messi in discussione e rifiutano spesso, con violenza, quella discussione. Nel vegano che gli si para davanti vedono un’alternativa connessa a domande di giustizia e compassione, domande che non capiscono o, più semplicemente, sono abituati a non considerare. Domande ingombranti che devono essere eradicate.  

Così partono le battute e le provocazioni al fine di demolire l’esempio destabilizzante ovvero odioso. E ristabilire l’ordine, il regime del così si è sempre fatto. Il cibo è l’ambito in cui le persone si dimostrano più terrorizzate dal cambiamento. E’ anche una questione di immaginario: tutti noi cresciamo, sin da piccoli, nella rimozione del destino degli animali.

C’è un VUOTO tra l’animale non umano, vivo e desideroso di vita e l’alimento che arriva nel piatto. Siamo abituati a separare l’essere senziente dalla polpetta/bistecca/fetta di prosciutto, siamo addestrati a non contemplare i passaggi mortiferi. E non è questione di superiorità morale: i vegani, semplicemente, sono persone che a un certo punto hanno preso atto di cosa c’è in quel VUOTO, in quello spazio occultato. E se ne fanno carico. Agiscono, nel mondo, facendosi portavoce di quegli esseri stipati e brutalizzati, deportati e uccisi. Migliaia, milioni, miliardi di animali mandati a morire ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Esseri che, proprio come noi, sentono il piacere e il dolore, ma che comunicano in un modo diverso dal nostro e che, quindi, possono facilmente essere trattati come materiale inerme, a disposizione. Corpi vivi ridotti a oggetti, cose.

Eppure non c’è possibilità di fraintendere: gli animali vogliono vivere. Scalciano, scappano, si nascondono o tentano di farlo. Fino all’ultimo, fino al loro turno nei mattatoi.

Per molte persone, l’antispecismo è finalizzato solo alla liberazione dell’animale non umano ma l’antispecismo è espressione  di un movimento che include l’intersezionalità. Di questo ne parlerò nel prossimo articolo.

(*) il termine «carnismo» — in opposizione al «veganismo» — è stato coniato dalla psicologa americana Melanie Joy, per indicare quell’invisibile sistema di credenze che condiziona le persone a mangiare certi animali e non altri, e ha fondato la ong Beyond Carnism. 

(**)

Febbre (2019 – finalista Premio Strega) Fandango Libri

Corpi minori (2022 – Mondadori)

1 – Continua


L’amicizia (ultima parte)

Le esperienze che ho raccontato nei due articoli precedenti mi hanno lasciato una profonda cicatrice. La ferita si è rimarginata – si dice che il tempo è gran dottore – ma, a volte, torna a farmi male. Come i dolori reumatici che si fanno sentire quando le condizioni meteorologiche sono avverse. E’ una nostalgia, più che un dolore.

Ho raccontato molte volte, nel corso degli anni, quelle due esperienze e ho raccolto pareri contrastanti. Mentre la persona che si stanca delle amicizie (vedi L’amicizia – prima parte) non ha avuto nessuna giustificazione, l’altra, disponibilissima a dimenticare il freddo, la stanchezza e l’essere in pigiama per tuffarsi tra le braccia del suo cicisbeo anziché sostenere una vera amica quale ero io, ha ottenuto molta comprensione. La motivazione è unanime: un’amica vera c’è sempre (lei pensava, con spavalda presunzione…), come un familiare stretto mentre il bellimbusto, periodicamente transfuga e dal comportamento scostante, andava assecondato per timore di perderlo definitivamente. Può essere. Ma non sempre trasformarsi in zerbino può dare i risultati sperati….

Ma io non ci sto, anzi, non ci sono stata e ho interrotto la relazione. Stavo molto male e non mi è stata tesa la mano. Probabilmente, se si fosse limitata a manifestare stanchezza, freddo e nessuna voglia di uscire dal caldo pigiama, avrei compreso. Stavo male, è vero, ero afflitta e sfiduciata ma non ero moribonda e potevo superare, da sola, il disagio esistenziale momentaneo, come altre volte era accaduto. Inconsciamente – ma nemmeno troppo – ho voluto metterla alla prova.

Dopo anni ci siamo, casualmente, riviste per strada. L’ho riconosciuta e fermata. Per indole, non sono incline né al rancore né alla vendetta. E non sono permalosa. Non lo sono mai stata. Mi ha fatto piacere rivederla. Ci siamo scambiate i numeri dei cellulari che, nel frattempo, erano comparsi nella vita di tutti. Ci siamo raccontate spezzoni di vita, quelli più significativi, in piedi, sul marciapiede. Il cicisbeo di cui attendeva la telefonata non si è più fatto vivo…

Ho percepito il comune sentire di un tempo ma ero cambiata e non volevo farmi ancora del male. L’amicizia totalizzante era un ricordo del passato. Ci siamo salutate e abbracciate con affetto. Ancora oggi, di tanto in tanto, ci scriviamo qualche messaggio ma non possiamo più vederci perché lei è è tornata al suo paesello di origine, nel Sud Italia, e io sono sempre rimasta nella mia città, Milano, dove ci eravamo incontrate e dove lei era rimasta molti anni, per lavoro.

Le delusioni sull’amicizia – e, vissute all’età in cui le vissi lasciano un segno profondo – mi hanno insegnato molto.

Ho vissuto altre delusioni da sedicenti amiche e amici ma di lieve entità e presto superate e dimenticate. Insieme alle persone che me le hanno inflitte.

Ma che cos’è l’amicizia? E’ difficile da spiegare…. Innanzitutto è un sentimento, di fiducia, affetto, affinità che si alimentano nel tempo. E’ complicità, coinvolgimento e impegno. E’ un punto di riferimento e stabilità. E’ un rapporto umano universale, totale e assoluto.

L’amicizia è scegliersi e rappresenta il rassicurante piacere di stare insieme, di divertirsi, di soffrire, di ridere e di piangere per le stesse cose.

E’ un sentimento forte e unico, il primo fuori dal ristretto ambito familiare. E “la famiglia – recitava uno slogan della contestazione giovanile degli anni ’70 – è ariosa e stimolante come la camera a gas”. L’amicizia è, al contrario, aria pura. Per “famiglia” non intendo quella che ho costruito e scelto ma il parentado comunemente inteso. Quello che non scegli e di cui ne faresti volentieri a meno.

Oggi, grazie alle ferite insanabili che mi sono state inflitte, sono disincantata, disillusa e un po’ smaliziata. Non voglio più farmi del male, non voglio più investire. Ma sono onesta e non voglio tradire aspettative. Posso dire di avere buone conoscenze, ottime relazioni, persone che stimo tantissimo con le quali divido parte del mio tempo e dei miei ideali. Felicemente. Persone a cui voglio bene. Ma l’amicizia è, anzi, era un’altra cosa. Posso dire di averla vissuta intensamente, in modo totale e assoluto, per due volte, ed è stata una sensazione bellissima, uno stato di grazia.

E, riflettendo, con la saggezza (?!) di oggi, posso affermare, senza téma di essere smentita, che gli errori li ho commessi io. Perché non ho considerato la caducità umana, le debolezze, le fragilità, l’umano egoismo, l’asimmetria delle relazioni affettive.

Perché sono stata intollerante, intransigente. Perché ho considerato importanti, in quel momento, solo le mie fragilità, spazzando via tutto il resto. Perché, ragionando con il mio metro, se un’amica mi avesse telefonato per chiedermi un aiuto o farle un piacere che potevo concederle, non mi sarei risparmiata. Ma non siamo tutti uguali.

Fine


L’amicizia (parte 2)

“Beh, certo, uscirei”

Per comprendere il significato di quella asserzione che, apparentemente non ha nulla né di inquietante né di sinistro, è necessario partire dall’inizio del racconto di una nuova amicizia, nata dopo la cocente delusione ricevuta dall’amica incostante e instabile, da colei che si stancava delle amicizie. (Vedi il racconto nell’articolo precedente “L’amicizia – parte 1” – qui).

Dal giorno del miserabile tradimento, ho vissuto anni tormentati e bui e, come una fuggiasca, cercavo di evitare situazioni di coinvolgimento emotivo. Mi sentivo autarchica. O fingevo di esserlo. E l’autarchia è l’autosufficienza del saggio, ideale etico dei cinici e degli stoici. Ma la veste di cinica mi andava stretta. E non sapevo essere stoica.

E così, dopo quasi 6 anni, vissuti tra un divorzio, una bambina da crescere da sola, lavori precari, successi e insuccessi di varia natura, giocando, dissennatamente, d’azzardo e con l’incoscienza che mi contraddistingue da sempre, ho investito tempo, sentimenti ed energie su un’altra persona, una nuova amica del cuore. La sintonia e la complicità che si erano create tra noi mi avevano ridato fiducia e la delusione della precedente amicizia si era diluita, perdendo intensità e struggimento.

Abbiamo trascorso insieme serate, discussioni dialettiche, un’indimenticabile vacanza all’estero, gite fuori porta, pomeriggi pigri, pranzi, cene, cinema, teatro, concerti, risate. La nostra complicità era palpabile e le discussioni per varie divergenze di vedute erano costruttive e feconde anche se poi ognuna restava della propria opinione. Probabilmente avere la stessa età (lei un anno maggiore di me) era un elemento vantaggioso.

A proposito della citata vacanza all’estero, non eravamo sole ma con un mio amico che aveva voluto aggregarsi. Lei e io eravamo talmente coese e complici che, a un certo momento, dopo nemmeno una settimana, l’amico, sentendosi quasi un “terzo incomodo”, decise di abbandonarci e pure malamente. Ma non ci fece un baffo e continuammo per altre tre settimane la nostra vacanza.

Lei era sola, single per dirla in modo più esplicativo. Perché sola ha un’ altra accezione, un altro valore, a mio avviso. E lei non era sola. Aveva, oltre a me, tante altre persone che le volevano bene e con cui condivideva molte esperienze.

Un giorno mi confidò di aver conosciuto un tipo che le piaceva, le piaceva davvero tanto. Si erano frequentati, con una certa assiduità per un certo periodo e poi il silenzio. Era sempre lui che le telefonava sul “fisso” dai telefoni a gettone (i tempi dei cellulari erano di là da venire) perché era un “fuori sede” e dove alloggiava non aveva telefono. Era un mese che il telefono della mia amica non squillava perché il tipo non la chiamava.

Anch’io ero single, con una bambina. Abitavamo a un paio di chilometri di distanza.

Una sera d’inverno, ero particolarmente tormentata, più del solito e le telefonai, sul “fisso”. Avevo bisogno di vederla, subito, la sera stessa. Una chiacchierata vis à vis avrebbe sedato i miei tormenti, almeno in parte. La mia bambina di 8 anni dormiva nella sua stanza.

Mi disse che era stanca, aveva avuto una giornata faticosa e che era già in pigiama. Mi propose di andare da lei. Le obiettai che non potevo lasciare sola una bambina di 8 anni e che, se si fosse svegliata, sarebbe stato traumatico non trovare la mamma in casa, con il buio. E anche se non era mai successo che si svegliasse nel sonno, non sarei stata via tranquilla sapendola sola. Avrebbe aumentato le mie inquietudini.

Avevo talmente bisogno del suo sostegno, in quel momento, che le proposi di andarla a prendere e riportarla a casa con la mia auto. E, aggiunsi, che poteva venire in pigiama. La percorrenza con l’auto era di 5 minuti, anche con i semafori rossi e, nel caso la mia bambina si fosse svegliata non avrebbe nemmeno fatto in tempo a impaurirsi.

Era inflessibile. E seguitava a snocciolare lamentele: stanchezza, freddo, pigiama. Motivi, a suo dire, validi per non aiutare un’amica in difficoltà.

A un certo punto, mi balenò una provocazione e, inopinatamente, le chiesi: ” Ma se ti chiamasse il tipo che non ti telefona (e non ti fila) da un mese e ti chiedesse di uscire, cosa faresti?”

La risposta fu: “Beh, certo, uscirei”

Furono parole secche e taglienti come lo schiocco di una frustata. Riattaccai il telefono. Quella telefonata fu esiziale per la nostra amicizia.

Continua… 2 – La prima parte è qui


L’amicizia (parte 1)

” Perché io delle amicizie, a un certo punto, mi stanco!”

A pronunciare quella frase che ancora oggi, a distanza di moltissimi anni, mi ferisce, fu quella che consideravo l’amica del cuore. Una persona che incontrai a 19 anni (lei ne aveva 5 più di me) al mio primo anno di università che, per varie vicissitudini dovetti abbandonare. Ma la nostra amicizia continuò anche fuori dalle aule universitarie. Ci telefonavamo, sul telefono di casa – “il fisso” – perché non esistevano gli smartphone e nemmeno i social. Ci davamo appuntamento per vederci fuori, per una passeggiata o per incontrare altre persone o ci vedevamo nelle nostre rispettive case per fare lunghe chiacchierate complici, davanti a un tè.

Non passava giorno in cui non ci telefonavamo per raccontarci di noi, della nostra vita, delle nostre ansie, delle nostre gioie o inquietudini. Ridevamo a crepapelle. Un giorno le annunciai che mi sarei sposata e che avrei desiderato fosse mia testimone di nozze. Accettò. Avevo 20 anni e tanta paura. Ma la sua presenza fu fondamentale.

Dopo il matrimonio la nostra frequentazione continuò, con la stessa assiduità, la stessa empatia, la stessa complicità. Le telefonate erano più rade ma non passavano più di 4-5 giorni senza sentirci sul “fisso”. Per 2-3 anni.

Un giorno le telefonai per proporle di vederci ma la sentii distaccata, taciturna e fredda. Poteva accadere, pensai. Avrà le sue paturnie, sarà di cattivo umore. Non siamo sempre garruli. E, pur rimanendoci male, lasciai correre. Dopo due giorni – pur aspettandomi una sua chiamata – la richiamai. Ma l’atteggiamento distaccato era lo stesso. Ero davvero desolata oltre che incredula. Anche questa volta, forse per non sentirmi dire che avevo qualche colpa, lasciai perdere e, dopo i saluti, riattaccai.

Lasciai passare una settimana. Silenzio da parte sua. Richiamai e, dopo un respiro profondo e con una certa audacia o, forse, insolenza, le chiesi cosa avesse e se le avessi fatto, involontariamente, qualcosa. E la risposta fu quella che ho scritto all’inizio dell’articolo e che qui ripeto, ancora incredula, ferita e annichilita ” Perché io delle amicizie, a un certo punto, mi stanco!”

Continua…